L’AQUILA – “La tragedia del crollo del ponte autostradale di Genova è la dimostrazione del fallimento dei due assi prevalenti sui quali si sono articolate le scelte politiche italiane degli ultimi 20-30 anni: le privatizzazioni e l'Europa. Enorme per le vittime provocate e le sue conseguenze la tragedia di Genova è, però, solo l’ultima a interessare una infrastruttura di trasporto stradale e ferroviario invecchiata e al di sotto delle necessità di un Paese come l’Italia. Ricordiamo in questa sede solo la tragedia ferroviaria in Puglia di due estati fa, anche lì con il coinvolgimento di concessionari privati e in presenza di ritardi tecnologici dovuti a scarsi investimenti”.
È un dibattito pressoché continuo quello scaturito dalla tragedia del crollo del Ponte Morandi, a Genova, che ha causato per adesso 38 morti e 600 sfollati, che ha provocato una bufera politca sul gestore privato, Autostrade per L'italia, controllata dalla famiglia Benetton, e che ha anche pesanti ripercussioni in Abruzzo, e sulle sue autostrade gestite da Strada dei Parchi del gruppo Toto, in quanto nella mappa dei ponti a rischio del Cnr sono anche i viadotti abruzzesi dello svincolo di Tornimparte (L’Aquila) e quello di Bussi (Pescara), entrambi “osservati speciali” in questi giorni di preoccupazione per lo stato delle Infrastrutture.
Un dibattito acceso – anche in Abruzzo visto lo stato di salute precario di molti tratti autostradali e visti i nervi tesi per gli aumenti dei pedaggi – e a nervi tesi che sta mettendo a nudo il mondo delle concessioni di beni pubblici e strategici ai grandi gruppi privati.
Della bontà di tale spartito, però, non è affatto convinto Domenico Moro, ricercatore Istat e autore, tra gli altri, di un libro uscito lo scorso febbraio dal titolo La gabbia dell'euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra (Imprimatur editore), libro presentato all’Aquila proprio a febbraio in un convegno organizzato dal movimento Eurostop, con l'adesione di Potere al popolo.
“Ad ogni modo – spiega Moro ad AbruzzoWeb – integrazione europea e privatizzazioni sono due fattori strettamente legati tra di loro dalla concezione indiscutibile della superiorità del mercato autoregolato e del privato (in altre parole del capitalismo). Inoltre, le massicce privatizzazioni degli anni ’90 erano motivate dalla necessità di fare cassa per ridurre il debito pubblico e così poter entrare in una Europa, che vedeva e vede l’intervento statale come un aspetto negativo da ridurre il più possibile. Non si capisce, quindi, come si possano assolvere vent'anni di austerity e di neoliberismo europei ed esaltare una specie di placebo come il piano di investimenti Junker. È molto tempo, dagli anni ’90, che in Italia è prioritario perseguire la disciplina di bilancio e privatizzare. Ciò ha provocato prima il blocco e poi la drastica riduzione degli investimenti fissi, che non può che condurre a un deterioramento delle infrastrutture. Solo per fare un esempio percepibile da tutti, lo stato delle strade in molte regioni e città, a partire da Roma, è giunto a condizioni di degrado insostenibile”.
“Anche il crollo del valore aggiunto del settore costruzioni, a causa del blocco degli appalti e della spesa pubblica dopo il 2010 a seguito delle misure della Ue contro il debito eccessivo – prosegure l'esperto – non ha paragoni con quello di altri Paesi, soprattutto al di fuori dell'area euro. Nel 2014 il ragioniere generale della provincia di Roma disse, nel corso della presentazione del rapporto sul Benessere equo e sostenibile, che gli investimenti erano stati per alcuni anni (quelli più duri di Monti) pari a zero, per i vincoli europei e con il conseguente pessimo stato delle strade e delle infrastrutture. A parte la manutenzione, non c'è stata, a causa della disciplina di bilancio, neanche una politica di sviluppo e di costruzione di nuove infrastrutture di trasporto viario, ferroviario, ecc., a parte pochi casi – come l'alta velocità (peraltro solo tra Napoli e il Nord), legata agli alti profitti che consente. Di conseguenza l’infrastruttura stradale e molta di quella ferroviaria sono ormai invecchiate e usurate, come si è visto a Genova”.
“Il programma di investimenti di Junker – afferma ancora il ricercatore Istat – che viene esaltato da alcuni commentatori per assolvere la Ue, è riconosciuto essere ininfluente e molto al disotto delle necessità (315 miliardi di euro per tutta Europa, di cui solo 21 stanziati effettivi!) ed è legato alla mobilitazione degli investimenti privati, cioè sono soldi spendibili solo con impegno misto pubblico-privato, il che rende complicato il suo utilizzo. Ma soprattutto condizione imprescindibile e prioritaria è che tale aumento dei finanziamenti non provochi l’aggravamento del debito pubblico. Gli stessi fondi europei, dei quali si critica spesso il loro scarso utilizzo, possono essere spesi solo con una compartecipazione pubblica nazionale, che è bloccata dal Patto di stabilità interno, cioè dai trattati europei. In particolare le regioni, da cui dipendono i due terzi del finanziamento nazionale delle opere, non possono sforare e si trovano a dover decidere tra spendere o per le infrastrutture, o per la sanità, o per gli stipendi dei dipendenti, eccetera.
Ma lo stesso vale anche per lo stato centrale. Un esempio è dato dalla autostrada dei parchi in Abruzzo, per la quale si era proposto di sostituire gli ormai vetusti viadotti con un sistema di gallerie, più sicure in un’area ad alto rischio sismico. La spesa prevista di 7 miliardi fu giudicata eccessiva e il ministro dei Trasporti, Graziano Delrio, ripiegò verso una soluzione diversa per una spesa di 2 miliardi”.
“In un paese come l'Italia, con una morfologia del territorio problematica (lunga, stretta, prevalentemente collinare, e divisa da una lunga catena montuosa) e una notevole fragilità del territorio, sottoposto a frane e terremoti, come si è visto drammaticamente in Abruzzo prima e in altre aree del Centro Italia come Amatrice poi – fa notare Moro – che non sono neanche lontanamente paragonabili all'Europa centrale, servirebbero investimenti di decine di miliardi solo per i prossimi dieci anni e solo per la manutenzione, e non parliamo di quanto sarebbe necessario poi per aggiornare e ampliare le infrastrutture di trasporto.
Una spesa di proporzioni tali che non può e non vuole fare il privato, ma che solo lo Stato è in grado di intraprendere”.
“Anche perché dei ricavi, aumentati grazie alle tariffe sempre più elevate, solo una minima parte è reinvestita nelle infrastrutture, dal momento che secondo le logiche di profitto private, una parte deve andare a pagare i dividendi degli azionisti.
In particolare, Autostrade per l’Italia ha reinvestito nel 2017 solo una minima parte (232 milioni di euro nei primi sei mesi del 2017 e 197 nello stesso periodo del 2018) dei quasi quattro miliardi di euro ricavati dai pedaggi. Mentre è abbastanza ovvio che una gestione statale permetterebbe di reinvestire molto di più”.
'Quindi, è evidente che le infrastrutture e i monopoli naturali e artificiali, come la rete autostradale, vanno nazionalizzate, sottoposte a manutenzione costante, rinnovate e ampliate con investimenti massicci, che, oltre alla cosa più importante, cioè mettere in sicurezza la vita e le case dei cittadini, darebbero lavoro e incrementerebbero il Pil del Paese con opere utili, riducendo anche il rapporto debito Pil sul medio periodo”, dice quindi Moro.
Secondo cui “atrettanto evidente, però, è che una cosa del genere non si può fare nel contesto dell’euro e dei trattati e che, se non si vuole parlare, a vanvera, di voltare pagina, bisogna uscire dai trattati e dall'euro. Una condizione necessaria se si vuole fuoriuscire dal modello neoliberista”, conclude. (r. s.)
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