DENTISTA E PROF, DE CICCO ”NO AGLI PSICOFARMACI AI TERREMOTATI, NON SERVONO”

di Roberto Santilli

13 Marzo 2012 08:03

L'Aquila -

L’AQUILA – È stato all’Aquila per quasi quarant’anni Vincenzo De Cicco, dal 1971 al 2009.
 
Quarant’anni di crescita, da studente universitario a dentista e professore che ha puntato, una volta appesa la laurea alla parete, a un argomento ignorato e spesso respinto ‘ideologicamente’ dalla nomenklatura scientifica italiana: il rapporto che c’è tra un’occlusione errata dei denti e problemi di molteplice natura: alla schiena, alla postura, all’apprendimento, all’attenzione e così via.

“Un aspetto che in Italia viene considerato da sì e no mille dentisti su 50 mila”, spiega con amarezza.

Un “puzzle” da costruire via via in un clima di ostilità di molti colleghi, ma tassello dopo tassello oggi De Cicco è arrivato al punto cruciale della sua carriera. Raggiunto, tolte le brutture e i dolori, da uno scatto fisico e psicologico nato come reazione al sisma del 6 aprile del 2009.
 
Lo scatto che manca, è il caso di dirlo, in questa fase ‘di mezzo’ a tre anni dal sisma.

De Cicco parla anche degli effetti mentali che cominciano a colpire a tre anni dal sisma, evidenziando che a portare le “cicatrici” maggiori della scossa delle 3.32 è il nucleo centrale dello stress del cervello umano, il “locus coeruleus”: un’area su cui i tanto utilizzati psicofarmaci possono poco.

“Meglio impegnare la mente in altre attività, avere uno scopo”, consiglia il prof. Cioè, pensare al futuri dell’Aquila, ognuno con i mezzi che ha a disposizione. AbruzzoWeb lo ha intervistato.
 
Professor De Cicco, inziamo dalla domanda più ovvia: dov’era la notte del terremoto?
 
Nella casa dove vivevo in affitto, zona piazza d’Armi. Ho mantenuto la calma, mi sono messo sotto una trave e ho aspettato che terminasse. Ho raccolto i documenti e sono uscito. Non ho realizzato subito i danni né tantomeno ho compreso all’istante l’entità di quella che poi si è rivelata una tragedia incredibile. Ho incontrato la mia compagna, in pigiama, appena uscita dalla casa di via XX settembre. Solo dopo, con la macchina parcheggiata alla Villa comunale, ho cominciato a rendermi conto che eravamo dentro a un disastro di dimensioni enormi.
 
Vivo e vegeto, con la casa e lo studio dentistico ormai spacciati.
 
Sì, ambedue. Fortunatamente esercitavo anche a Roma. Il terremoto mi ha costretto ad andare fuori stabilmente ma in compenso mi ha permesso di riordinare le idee e di ricercare la possibilità di poter dimostrare ufficialmente, in ambiente sanitario qualificato, le diverse patologie neurodisfunzionali che trattavo privatamente nel mio studio.
 
Dopo tanti anni nel capoluogo, com’è stato allontanarsi?
 
Difficile. Per il legame affettivo che avevo stabilito con la città e con i pazienti che seguivo da tanto tempo. L’Aquila mi ha dato la serenità per approfondire tematiche riguardanti le afferenze propriocettive dell’occlusione dentale e di sviluppare i relativi modelli neuropatologici: dalla risoluzione di patologie algiche posturali cercavo di individuare i sistemi neuronali che erano alla base delle evidenze cliniche. Ricordo l’università degli anni ’70, quando L’Aquila era ancora una piccola cittadina, senza troppi diversivi serali se non la passeggiata pre-cena lungo i portici. Poi tutti a casa, anche per il freddo, a studiare. Era proprio a misura di studente. A questa città devo la mia strutturazione come medico che ha avuto e che ha il piacere dello studio. 

All’Aquila ha cominciato la sua ricerca sulle patologie posturali e sull’equilibrio muscolo-funzionale della bocca. Il primo passo verso una miriade di scontri con il mondo accademico locale e nazionale.
 
Quando ho iniziato, a metà degli anni Ottanta, quasi non si conosceva la parola “postura” e quando ne parlavo, nella migliore delle ipotesi, venivo deriso. Successivamente, la derisione è stata sostituita da aspre critiche e attualmente, secondo il normale percorso evoluzionistico, il tutto è diventato “ovvio”. Giusto per citare qualche aneddoto: quando un ricercatore australiano affermò che il responsabile dell’ulcera gastrica era un batterio, la comunità scientifica internazionale gli si rivoltò contro in modo molto critico. Oggi, ovviamente, la prescrizione di antibiotici per questa patologia è una prassi consolidata. Purtroppo devo confessare che mi rammarica vedere che la “postura” è trattata spesso secondo una logica meccanicistica, quando in realtà la ritengo la più alta forma di integrazione neurofisiologica dei sistemi sensoriali.





Perché, secondo lei?

Perché lo studio della neurofisiologia posturale è complesso e ogni professionista deve integrare la sua cultura nozionistica e terapeutica con una serie di approfondimenti anche in altre discipline. Più frecce si hanno nella faretra e maggiori sono le possibilità di centrare il bersaglio. Il vero problema è costituito dal fatto che ogni freccia è costruita da studi che spesso possono anche non piacere. Questo potrebbe spiegare perché spesso la classe odontoiatrica, non solo 25 anni fa, ma anche oggi, rifiuta queste interazioni, negando le evidenze cliniche e scientifiche. Comunque, nonostante tutto, qualche buon passo è stato fatto. A breve, spero, ne verranno altri.
 
Qual è stato l’elemento che l’ha colpita di più all’inizio delle sue ricerche?
 
Semplice: tutti abbiamo, chi più chi meno, una malocclusione dentale, ma non è detto che questa debba comportare necessariamente patologie posturali o algie muscolo-scheletriche. La biologia dei sistemi neurofisiologici suggerisce che le risposte rispondono a leggi di non-linearità, ma sicuramente i sintomi patologici che possiamo avvertire al mattino, appena svegli, possono essere riconducibili a occlusione dentale o a deglutizione disfunzionale. È evidente che lo studio dell’apparato dentale deve prevedere un’indagine accurata con utilizzo di sistemi computerizzati, quali elettromiografia di superficie dei muscoli masticatori e Kinesiografia per la valutazione dei movimenti mandibolari.

Queste indagini, simili a quelle eseguite in ambito cardiologico, devono essere eseguite prima, durante e alla fine del trattamento odontoiatrico. Oggi tutti i campi medici si avvalgono di misurazioni computerizzate. Lo studio della funzionale muscolare dell’occlusione dentale o, più precisamente, lo studio della propriocezione trigeminale dell’occlusione è praticamente non considerato. Basti pensare che in Italia su 50 mila dentisti solo una piccolissima parte, un migliaio circa, utilizza questi strumenti diagnostici.   
 
In soldoni?
 
Non sempre si è capito che il difficile non è eliminare un piccolo contatto dentale, responsabile di importanti dolori muscolari, ma individuarlo. Questo forse è l’aspetto più affascinante di questo ramo dell’odontoiatria. Col tempo ho capito che alla base del complesso occlusale dentale è presente una “attenzione filogenetica” importante. Per esempio, perché quando si ha sonno e stiamo guidando, masticando un chewing gum ci passa il sonno per un breve periodo? Una ricerca norvegese ha dimostrato che le persone anziane che hanno anche pochi denti presentano una cognitività attenzionale superiore rispetto a soggetti edentuli. Allora ci si può rendere conto che l’apparato muscolo-dentale è molto più importante di quello che possiamo immaginare. 
 
Il suo è stato un percorso ‘alternativo’ al sistema.
 
Alternativo sicuramente, ma sempre nei confini della scientificità neurofisiologica. Non nego che ho vissuto momenti duri, a volte anche di sconforto. Il problema più difficile da superare è stato la mancanza di confronti scientifici. Nel corso degli anni ho cercato di assemblare le numerosissime ricerche fisiologiche eseguite sul nervo trigemino. In pratica, è stato come comporre un grande e meraviglioso “puzzle”. A volte ero assalito da dubbi sulla veridicità dei percorsi speculativi culturali che avevo costruito. 
 
Però, ha avuto la fortuna di invertire il corso della sua storia.
 
Assolutamente sì. Le mie argomentazioni da “turista” neurofisiologico del nervo trigemino sono arrivate lontano. Nel 2004 ho avuto il privilegio di incontrare a un congresso il professor Marcello Brunelli, ordinario di neurofisiologia dell’università di Pisa che nel 1976 collaborò con Eric Kandell, premio Nobel 2001 per gli studi sulla memoria. In quell’occasione io relazionavo sugli effetti dell’occlusione dentale sui processi cognitivi-attentivi mentre Brunelli presentava una lectio magistralis sui processi biologici che portano alla memoria. Da allora ho intrapreso una forte e densa collaborazione con lui e ho finalmente trovato le risposte alle mie argomentazioni neurofisiologiche, ma soprattutto ho trovato anche un ulteriore slancio a perseguire le ricerche.
 
Con un momento internazionale molto importante.
 
Esatto. Nel 2006 a Madrid, abbiamo presentato uno studio al congresso internazionale di neuroscienze “Gate and mental Function” sulle variazioni cognitive indotte dall’occlusione dentale. Per cinque anni, inoltre,  ho tenuto lezioni di neurofisiologia trigeminale clinica all’Istituto di Fisiologia dell’Università di Pisa. La lunga collaborazione con il prof Brunelli ha prodotto in me una forte consapevolezza delle mie argomentazioni. Non sempre succede, sono stato molto fortunato…

Problema solo italiano?

Penso di sì.
 
Dove sarebbe stato capito prima, allora?

In Inghilterra, Stati Uniti, Israele. In questi Paesi è presente una forte criticità ma etica, e con grande correttezza culturale.

Vuol dire che le tesi qui da noi devono passare attraverso campi diversi da quelli medici?





Vuol dire che l’approccio culturale alla ricerca fa la differenza. Posso confermare che la fuga di cervelli esiste. Nonostante l’eccellente preparazione della maggior parte dei laureati, la possibilità di fare ricerca, vuoi per l’esiguità dei soldini vuoi per taluni establishment universitari, è ridotta e spesso, benché molto preparati, i giovani laureati sono costretti a trovare altre possibilità più meritocratiche.  
 
La sua ricerca ha fatto storcere il naso a molti, però lei ha scelto di non andare via.

Se avessi qualche anno in meno, ma, sopratutto, se avessi iniziato a studiare prima, probabilmente anche io avrei preso l’aereo. E comunque ancora non è detta l’ultima parola. Una cosa è certa: la consapevolezza di aver aperto in  campo odontoiatrico nuovi percorsi mi dà un sereno distacco da eventuali ostacoli che fino a qualche anno mi facevano drizzare i capelli. Sarà per questo che ne sono rimasti pochi.
 
E il sistema tutto italiano? Dà segni diversi di cambiamento, oppure si è cristallizzato?

Non è cambiato per niente.
 
Lei, però, ha quasi fatto il grosso del suo lavoro.

Sto aspettando la pubblicazione dei miei studi, sì.
 
Sappiamo che i problemi legati a un evento come il sisma dovrebbero essere affrontati con decisione dalla classe medica e dalle istituzioni. Lei ha qualcosa di molto diretto da dire.

Penso che ognuno di noi ricorderà per sempre il terremoto. La vista di edifici crollati, il ricordo di quella notte, le persone tragicamente scomparse o un qualsiasi stimolo che riporta al sisma non può che attivare l’area della amigdala, ossia quella parte del cervello che processa e memorizza le emozioni stressogene, come per esempio la paura, il dolore. Per effetti neurofisiologici riverberanti, l’amigdala è in relazione con un nucleo molto particolare, denominato “locus coeruleus”, considerato il nucleo centrale dello stress. La particolarità di questo nucleo è quella di non poter essere più di tanto inibito da prodotti “calmanti”. Ho letto che all’Aquila è aumentato di molto l’uso di psicofarmaci e barbiturici, personalmente li sconsiglio in quanto gli effetti su questo nucleo sono modesti. 
 
Come se ne esce, secondo lei?

L’unico modo per interrompere questo circuito è cercare di avere uno scopo, va impegnata la mente in altre attività, con volontà e intensità. La noradrenalina ha preservato la persona nell’emergenza. Bene, ora bisogna crearsi uno scopo. Va impegnata la mente all’Aquila che sarà. In questo contesto la politica dovrebbe sostenere la popolazione nella maniera migliore. Qui non c’è solo un problema di ricostruzione, ma di psiche.

Non bisogna sottovalutare questo aspetto, l’umanità ha sempre avuto bisogno di uno scopo e gli aquilani ne hanno bisogno ancora di più. Il terremoto ha cambiato anche me, è sicuro. Ho impegnato molto di me stesso per portare a termine i miei progetti di ricerca. Spero di vedere presto i risultati e sarà mia premura comunicarli attraverso queste pagine. Mi pesa la lontananza da questa città , perché la amo ancora molto e vorrei vederla sulla strada giusta verso un futuro migliore.

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