LIBRI: LE LUCINE DI MORESCO SECONDO MACIOCI

di Enrico Macioci *

12 Aprile 2013 17:54

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L’AQUILA – ‘La lucina’ di Antonio Moresco (Mondadori, 2013) ha appena 167 pagine a stampa larga.

Benché sia un libro breve, forse il più breve dello scrittore mantovano, ha un respiro cosmico, è un dolce e terribile incanto universale; ed è un oggetto narrativo che situandosi a metà fra poesia e prosa, filosofia e religione, scienza e interrogazione metafisica, infrange i generi e va a cercarsi da sé il posto giusto.

Ne La lucina troviamo infatti San Francesco e Darwin, Saint Exupèry e Einstein, ma soprattutto troviamo Leopardi; un Leopardi di marmorea severità, certo, ma capace d’intravedere alla fine del tunnel un fioco eppur perenne barlume di senso.

Un uomo si ritira a vivere presso un borgo abbandonato, e ogni sera scorge dall’altra parte d’un vallone una piccola luce nell’oscuro mare del bosco, fin quando non decide di superare il vallone per verificare a chi appartiene la luce, chi la proietta.

Una trama semplice, basica, però in grado di sollevare le più inquietanti e capitali domande attorno all’esistenza.





È forse il pregio principale di Moresco, ciò che lo accomuna ai grandi d’ogni epoca: la capacità, meglio ancora la strenua volontà di denudarsi in quanto essere umano, in quanto minuscola creatura persa sopra un pianetino trascurabile all’orlo d’una trascurabile galassia fra miliardi di galassie; una creatura che sa, che è al corrente dell’incommensurabile dramma. Il quesito lacerante della coscienza (perché esisto se poi muoio?), il nostro dilemma per eccellenza, trova in Moresco come già in Leopardi un instancabile investigatore.

Eccolo, già a pagina 20: “Perché tutto questo brulicare di corpi che cercano di prosciugare gli altri corpi suggendoli con le loro mille e mille scatenate radici e le loro piccole, forsennate ventose, per dirottarne su di sé la potenza chimica, per creare nuovi fronti vegetali in grado di annientare tutto, di massacrare tutto? Dove posso andare per non vedere più questo scempio, questa irreparabile e cieca torsione che hanno chiamato vita?”.

l Leopardi del ‘Canto notturno’ o della ‘Ginestra’, o perfino quello al calor bianco di ‘A se stesso’, non è lontano.

Ma la natura, pur cieca e spietata, non manca d’esercitare su Moresco una commossa magia; allora ecco le “piccole farfalle gialle che volano scardinate nel cielo”, ecco il cane che segue il narratore per chilometri e chilometri di sentiero in un misto tenero e nervoso di minaccia e solidarietà, ecco l’amara riflessione sulla breve, insensata eppur magnifica esistenza delle lucciole, ecco le continue osservazioni sul mondo muto e iperattivo della selva, dell’erba, degl’insetti, dei rami e delle radici.

Forse mai come qui il linguaggio di Moresco aderisce perfetto al tema: il ricorso ossessivo ai participi passati, le anafore, gli accumuli, le ripetizioni, le frasi cariche d’aggettivi non fanno che accentuare l’incombere della foresta e del firmamento, e più in generale della natura, sul disarmato ma ostinato protagonista, volontariamente solo innanzi al “brutto poter” di leopardiana memoria.

Ma all’angoscia Moresco non concede l’ultima parola. Il titolo del romanzo evoca la luce, una minuscola ma ostinata porzione di giorno, i titoli non sono mai innocenti, né possiamo dimenticare che l’ateo e nichilista Leopardi pose in esergo alla Ginestra un versetto di Giovanni…





Il problema, che trafigge l’intera opera di Moresco, consiste in una ricerca: dove mai possa trovarsi, dove mai possa darsi questa luce, questa chiave d’accesso a una qualche altra (salvifica? Copresente?) dimensione, sempre tenendo egli ben salda un’idea antropologica, per usare le sue parole, ‘sfondata’, d’un uomo moderno che in realtà, nonostante gli enormi progressi della scienza e della tecnica, e nonostante le presunte garanzie del razionalismo, non conosce neppure alla lontana gli abissi che lo abitano.

Il cuore di tenebra insomma, più ancora del cosmo, siamo noi.
In tale precisa ottica leggo il finale del libro, una sorta d’escatologia o di mistica più che una semplice morale o simbologia (teniamo presente che

Melville s’infuriava quando sentiva definire Moby Dick un’allegoria poiché per lui Moby Dick era ciò che era, e cioè la trasposizione verbale dell’indicibile, un tentativo periglioso ed eroico di dire il vero).

Ecco, col libro di Moresco credo che siamo lì, nella zona in cui non si rappresenta alcunché ma solamente si esiste o non si esiste.

Perciò dunque, per imbattersi in un’immaginazione che mette in gioco davvero tutto, affermo che vale la pena leggere ‘La lucina’, anche a rischio di sprofondare nel buio. Per sentirsi vivi.
 
* romanziere e intellettuale aquilano

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