MOSTRA DEDICATA AL PITTORE TERAMANO MONTAUTI ”RIAPRE IL CASO” DEL DIPINTO DI VAN GOGH SPARITO

12 Febbraio 2019 06:30

Regione - Cultura

TERAMO – “Non cercate quel dipinto, non vi appartiene”. 

È il 14 marzo 1979, il sessantenne pittore teramano Guido Montauti, sul letto di morte, pronuncia le sue ultime parole e avvolge nel mistero la vicenda del ritrovamento della presunta tela di Van Gogh che, sette anni prima, gli aveva regalato la ribalta mediatica. 

A un secolo dalla nascita di Montauti, artista noto per aver fondato il collettivo ribelle “Il Pastore bianco” e attivo per un periodo anche a Parigi, la famiglia ammette di non sapere dove sia finita l’opera.

Un mistero raccontato sulle pagine del Corriere della Sera.

Tutto ha inizio lunedì 27 marzo 1972, quando il telegiornale annuncia la scoperta del Van Gogh in un servizio di Alberto Michelini. Subito c’è chi grida al falso, racconta il giornalista Nicola Catenaro, tanto che per il critico Virgilio Guzzi si tratta addirittura di un “pesce d’aprile anticipato”. 

La tela misura 75 centimetri per 55. Montauti, che a Parigi aveva lavorato come fiduciario di collezionisti privati interessati a Cézanne, Renoir e anche Van Gogh, è sicuro di non sbagliare. 





L’aveva adocchiata ad Ascoli, quattro anni prima, in una piccola bottega. Era su un muro in penombra: due figure in primo piano, un cavallo bianco e a sinistra sullo sfondo una donna con due bimbi. “Pendeva qui da almeno trent’anni”, gli dice l’antiquario, Mario Tomassini. Lui decide di comprarla al prezzo di centomila lire.

A riaccendere i riflettori sul Maestro abruzzese, la mostra “Guido Montauti per il centenario della nascita. Un percorso di creatività”, organizzata dall’Associazione Ambasciatori del Centro Italia, andata in scena la scorsa estate, nella cornice di Villa Paris di Roseto degli Abruzzi (Teramo), che sarà replicata all’Istituto di Cultura di Parigi e alla Galleria d’Arte Moderna di Roma nel corso di questo anno.

Cento opere per ricordare il grande Maestro abruzzese, nato a Pietracamela Teramo, il 25 giugno 1918 e scomparso il 14 marzo del 1979, ospitate dal 6 giugno al 31 agosto 2018 in una location considerata “di assoluto fascino per le atmosfere espositive”, attraverso le quali si è inteso ricostruire, a cento anni dalla nascita, il percorso di creatività della singolare esperienza artistica di Guido Montauti, riproponendo i segni di una tangibile eredità trasmessa ai posteri e, soprattutto, la sua attualità in un legame indelebile con le peculiarità del territorio.

Alla base del progetto, infatti, è la riflessione sulla valorizzazione di un patrimonio artistico da tutelare e conservare, ma soprattutto da valorizzare e far conoscere in un incontro tra arte, pubblico e spazi espositivi.Il percorso espositivo ha caratterizzato quindi gli spazi restaurati di Villa Paris, in un meraviglioso connubio di luogo e opere, esaltato da pitture e arredi “art nouveau” della villa novecentesca e opere dell’artista, dai primi dipinti giovanili al periodo del Pastore Bianco, sino alle grandi mostre italiane ed europee e alle opere più introspettive del volontario isolamento che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni di attività di Montauti.

Grande successo di critica e di pubblico, per la mostra che ha contribuito in modo sostanziale al recupero di un artista teramano che, sebbene noto anche al grande pubblico francese per aver a lungo vissuto e lavorato a Parigi ed essere stato apprezzato da numerosi collezionisti francesi, è stato dimenticato dalla critica storica, seguendo la sorte dell’arte del centro-meridione dell’Ottocento e del Novecento. 

Con l’allestimento di Roseto degli Abruzzi, Montauti assurge ad essere considerato un vero Maestro, rivelandone “la precocità delle intuizioni – scrive il critico d’arte Bruno Corà, presidente della Fondazione Burri, nel catalogo della mostra – e quanto quel lavoro pittorico fosse tra quello osservabile in Italia, in anticipo su talune importanti mozioni, anzitutto su quella dell’informale, a cui Montauti era già pervenuto nel ’42, mentre nel paese molti artisti ancora si attardavano in un’alfabetizzazione di stampo neocubista” (cit. Maximilian Daudet, 1961).

Sulla stessa lunghezza d’onda le opinioni dei membri del prestigioso Comitato Scientifico (oltre a Corà, il Rettore dell’Università di Teramo e la museologa Paola Di Felice tra gli altri) che ritraggono Guido Montauti come un grande anticipatore dell’arte del’900, ancora oggi espressione di innovatività e attualità, riportandolo alla ribalta della storia dell’arte nazionale e internazionale.





Una mostra, quella rosetana, che ha cercato innanzitutto di rileggere il “nesso – afferma il professor Nerio Rosa – che collega il lavoro dell’artista al suo vissuto (…) organizzando immagini filtrate dall’ambiente in cui è vissuto, ma lette attraverso consapevolezze stilistiche e storico-artistiche”; non quindi una ricerca di se stesso nella vasta e variegata produzione artistica, quanto una “dilagante vitalità espansiva (fatta di esperienze, incontri, viaggi, impegno)” – ci informa Paola Di Felice attraverso la quale “egli ha potuto confrontarsi con se stesso offrendo (…) una sorta di autoritratto ininterrotto e diffuso”. 

Così, dalle prime nature morte di memoria morandiana, al recupero della forza cosmica della natura dei luoghi che avevano nutrito il suo immaginario nell’infanzia, quasi come riscatto degli anni in cui le vicende belliche lo avevano costretto a spostarsi tra Grecia, Albania, Austria, Germania fino in Francia, dove rimarrà a lungo a contatto con i fermenti artistici del paese d’oltralpe. “La semplicità delle forme concepite da Montauti – afferma ancora il prof. Bruno Corà – ben oltre l’attribuzione conferitagli di art brut, si rivela ben resto una scelta, una rivendicazione e una orgogliosa conquista, riflesso della comprensione dell’essenza fenomenologica della realtà”. 

E l’esempio mirabile è il complesso monumentale del Pastore bianco, di cui la mostra rosetana espone dipinti ad esso ispirato.

Ci dice ancora Corà: “In quegli anni, nel 1964, il gesto creativo del Pastore bianco di Montauti si pone autonomamente sulla lunghezza d’onda di episodi formali quali la land art o l’arte in situ, peraltro cronologicamente successivi”. Una sorta di equivalenza di quel Gruppo ‘63 della letteratura, “ma con una connotazione assai più esoterica e al contempo meno mondana e più pragmatica”, che conosce la sua acme nella realizzazione della pittura rupestre nelle Grotte di Segaturo a Pietracamela. 

“Qui egli dispiega diversi gruppi di figure bianche, nere, rosse e blu sedute o erette, il cui richiamo alle più antiche officine pittoriche del neolitico è fortissimo. Sia per la scelta di un supporto naturale, di un sito montano, all’aperto, in relazione agli agenti atmosferici fortemente incidenti, come la luce solare, il vento, il gelo, la pioggia, la neve, i sismi e l’altitudine; sia per la modalità esecutiva ridotta all’essenziale dal punto di vista delle forme e del colore, con una dirompenza nel panorama di quegli anni a dir poco inedita. Perché la spazialità del Pastore bianco è quella stessa dei grandi cicli della pittura primitiva e tre-quattrocentesca, con giustapposizione di figure sedute e figure di cavalli e cavalieri a figure erette in posizione frontale o offerenti le terga, secondo andamenti prospettici e alternanze cromatiche essenziali o ridotte a pochissimi colori”.

Interventi di significativa rilevanza nel panorama della più ampia cultura visiva italiana ed europea, che lo consacreranno ad artista immortale nella sua attualità, al pari del suo nuovo alfabeto segnico-cromatico che, attorno al ’75 rinnoverà completamente l’aspetto dei suoi dipinti. Afferma ancora Bruno Corà: “La conquista, nella relazione rocce-piante-cespugli, della morfologia del cespuglio, fatto di tratti pittorici nucleati insieme, è la base su cui Montauti costruisce – con il principio dell’elementarità segnica e la logica del ritmo – analogamente ma diversamente da Castellani, da Dorazio o da Accardi, una texture con cui satura la superficie dei suoi nuovi dipinti. Un tratteggio cromatico ritmico trasversale che sembra un secondo avvento dell’astrazione di matrice neoplasticista. Dopo i risultati, pioneristici di Mondrian del 1942, dalla sintesi forma-colore della griglia neoplasticista sino alla libertà dissolutiva del Boogie-woogie, quella di Montauti si dimostra come un nuovo segno eloquente di metamorfosi del segno-colore, fondata sull’osservazione e sull’esperienza della natura. Bande oblique di colore o forme tondeggianti dello stesso, ottenute con semplici impronte di pennello, segnano l’estrema sintesi morfologica di sviluppi verticali obliqui o tondeggianti, alberi o rocce, colti in natura e evocati mediante la loro essenza-presenza ritmica. Siamo perciò al cospetto – conclude il presidente della Fondazione Burri – di una operazione linguistica fenomenologica che, dalla pura visibilità a base reale, approda all’interiorizzazione immaginifica e alla resa poetica”.

Bilancio del tutto positivo, quindi, per gli organizzatori della mostra “Guido Montauti per il centenario della nascita. Un percorso di creatività”, promossa dall’Associazione Ambasciatori del Centro Italia in sinergia con gli enti territoriali e Regione Abruzzo, Consorzio Bim Vomano-Tordino, Cciiaa Teramo ed Ente Parco Gran Sasso-Laga; bilancio positivo anche all’insegna di nuovi percorsi di conoscenza del patrimonio paesaggistico, come è nelle indicazioni di più forte attualità generate dalla Convenzione Europea del Paesaggio (Cep), che auspica una costante osmosi tra patrimonio culturale e paesaggio stesso, per la riformulazione e la creazione di un’aura connessa alla riscoperta di “paesaggi quotidiani e identitari”.

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