TUTTA LA DOLCEZZA AI VERMI: I MONTI DELLA LAGA SEGRETI DEL POETA CLAUDIO ORLANDI

di Filippo Tronca

15 Ottobre 2017 09:00

Teramo - Cultura

TERAMO – Si può anche salire a Frattoli con spirito da buontempone in gita, scherzando sull'assonanza con Frittole, il paese immaginario dove precipitarono in un vortice spazio-temporale i protagonisti del film Non ci resta che piangere

Accade poi però che l’insolita guida che precede la comitiva, inchiodi la sua automobile, e dentro una nuvola di polvere, dal finestrino, esclami: “Ma ditemi, non è forse questo un luogo sacro?”.

E ciò basta per liberare lo sguardo dalle tagliole della superficialità, farlo rotolare tra le verdissime valli dove si incontrano il Gran Sasso e i Monti della Laga, posarlo sui pascoli che un tempo erano marezzati dal bianco delle greggi, lasciarlo vagare alla ricerca dei tanti paesini nascosti tra i boschi, e in cima alle rupi, del comune sparpagliato di Crognaleto, in provincia di Teramo.

Luoghi ora terremotati e in via di spopolamento che un tempo non furono periferia del mondo, poiché in essi pulsava una povera e dignitosa civiltà delle montagne che traeva alimento dalla lana, dal legname e dalla pietra, e ancor prima dalla sapienza delle mani e dal sudore della fronte chinata sulla terra. 

Dal restare, per piacere e necessità, comunità coesa e cooperante.

Guida di questa gita domenicale è Claudio Orlandi, cantante dei Pane, la cui voce, è stato detto, è un suono sganciato dal tempo, figlio dell’abisso e del silenzio.

Con il gruppo Pane, oggi formato da Vito Andrea Arcomano alla chitarra acustica e Claudio Madaudo al  flauto traverso, Claudio Orlandi da vent’anni si cimenta in un percorso artistico senz’altro tra i più coraggiosi nel panorama italiano, come lo è quello che, nei tempi frivoli e patinati di J-Ax e Fedez e delle hit-parade occupate manu militari dai motivetti da centro commerciale, si ostina a mettere in musica le poesie di Vladimir Majakovskij, Victor Cavallo, Osip Mandel'stam, Sylvia PlathAntonio Porta, Gesualdo Bufalino, Ludovico Ariosto, lo stesso Orlandi e tanti altri.

Il musicista, che vive a Roma, in questi luoghi ha vissuto con i nonni materni tutti i lunghi mesi estivi dell’infanzia, dell’adolescenza ed oltre, e qui torna appena può.

Per godere del silenzio, per alimentare il fuoco che lo lega alla sua terra e che celebra la sacralità dell’abitare.

A maggior ragione dopo i terremoti del 6 aprile 2009, e del 18 gennaio 2017, che hanno aperto crepe nelle case di Frattoli svuotando anche le poche che erano abitate tutto l’anno.

“Ho provato una pena incommensurabile per questi piccoli paesini sulle montagne – spiega Orlandi – ho sentito tremare la mia montagna madre, e ora so che non va lasciata sola”.

Orlandi scosta la transenna di acciaio, imbottita con la rete di plastica dell’oramai familiare colore arancione, che in tanti paesi dell’Appennino fragile delimita le zone rosse e invalicabili. Propone una passeggiata nell’archeologia dell’intimo, per la quale non esistono e mai esisteranno mappe cartacee ed app geolocalizzate.

Una traccia la può dare giusto una riflessione di Emil Cioran, secondo il quale “è incomprensibile che chi gode dell'innocenza, stato perfetto, forse l'unico, voglia uscirne; eppure la storia, dai suoi inizi fino a oggi, è questo e solo questo”.





“Il terremoto ha portato distruzione – spiega Claudio Orlandi – ma qualche danno lo abbiamo fatto noi, molto prima, in tempo di pace. Quando ero piccolo questa strada ad esempio, era lastricata di ciottoli, consumati dal passaggio secolare di uomini e bestie. Era tutta irregolare, era fatta della pietra di queste montagne, era bellissima. Poi l'abbiamo sostituita con questa nuova pavimentazione, uguale a quella di tanti marciapiedi e vialetti di città. Abbiamo steso una colata di cemento, grigia e liscia, lungo vicoli che erano di terra ed erba. Opera pensata ad uso dei pneumatici, non per chi va a piedi. Nelle stradine dove giocavamo da piccoli, insomma, è arrivata la civiltà delle automobili”.

Nel parlare di Appennino, a costo di essere scontati, riesce facile citare il paesologo Franco Arminio, quando dice ad esempio che “l’Italia di paese e di montagna fa notizia solo quando muore per un terremoto o una valanga, ma bisogna resistere alla dittatura dell’attualità, occuparsi del margine più muto delle genti senza storia, di chi non ha neppure le forze per chiedere aiuto”.

Ed è quello che in fondo accade quando Claudio Orlandi ci accompagna salendo lungo i vicoli deserti del paese, al Piano Santo, sotto le antiche logge della chiesa di San Giovanni Battista, patrono del paese, la cui sobria eleganza ricorda che questa fu terra di valenti scultori, di grandi artigiani della pietra. 

Il Piano Santo è una terrazza abruzzese sul tetto dell'Appennino: a sud  il Corno grande, il Corno piccolo e Pizzo Intermesoli, che da quassù ricordano l'onda petrificata di Hokusai; a nord, il monte Gorzano, levigato dai millenni.

“Sotto queste logge – ricorda Orlandi – abbiamo trascorso l’infanzia. Tra queste colonne abbiamo giocato, ci siamo rincorsi e ci siamo nascosti, abbiamo parlato per intere serate, guardando le stelle. Qui sotto sono sbocciati i primi amori della vita, i primi baci. Qui forse ciascuno di noi ha avuto per la prima volta un rapporto intimo con la bellezza, una familiarità totale con queste forme artistiche, con queste armonie scolpite nella pietra delle nostre montagne. Chiunque sia stato almeno una volta al Piano Santo se lo ricorda per sempre, ovunque nel mondo lui si trovi”.

Rinominare i luoghi, riscoprirne o reinventarne il senso. Attribuire lo stesso valore del duomo di Milano, ad una chiesetta tratturale. Di via Veneto e del Canal grande, ad un vicoletto di paese, e ad un ruscello di montagna.

Oltre la retorica un tanto al chilo dei saluti delle autorità all’inizio dei convegni sulle aree interne e gli esperti di incoming che si esprimono rigorosamente in inglesorum, oltre gli ovviologi dell'albergo diffuso e i muezzin del bel tempo che fu, questo potrebbe essere il germoglio di un’idea originale di inedite forme di turismo. 

Chiamale se vuoi…emozionali. Che parlano, più che ai turisti, agli abitanti provvisori, anche per un giorno solo.

In Testamento, una delle canzoni più belle dei Pane, Claudio Orlandi dice di voler lasciare  “le mie braccia alle formiche, le mie orecchie alle foglie, la mia gola alle cicale, la mia schiena agli specchi”.

E ancora “il mio sangue alle querce, i miei occhi ai fiorai, il mio cuore agli operai”. E soprattutto “la mia testa a Salomè e tutta la dolcezza ai vermi”.

Nella copertina del cd, non a caso è stampigliato un altro luogo della Frattoli mitologica, la fonte del paese, il luogo forse più sacro di tutti. Dal cannello coperto di muschio si scopre dunque, sono sgorgate anche le parole di Orlandi.

“In questa fonte da bambini ci abbeveravamo usando una foglia per veicolare l’acqua pura, costruivamo capanne, sotto quelle rocce, prima del dirupo, che ci sembravano grandi come il Gran Sasso. Eravamo piccoli esseri liberi. Penso di essere stato fortunato, forse l’ultima generazione ad esserlo in questo senso, se vedo ora i bambini iper-controllati, che si ha quasi paura di farli correre, sudare, urlare, sporcarsi, arrampicarsi, di farli immergere nella natura”.

“Perché ho dedicato una canzone alla dolcezza? Perché è una parola poco frequentata – prosegue Orlandi –  si parla d'amore, di amicizia, di coraggio, di eroismo. La dolcezza è invece un massaggio, una carezza, un sorriso, quello di cui in tempi induriti e iper-competitivi, abbiamo tutti bisogno. Ed è per questo che ritengo sia giusto lasciare la dolcezza in eredità alle persone, ma anche ai vermi, è un atto di restituzione e rinascita. I vermi sono il fermento, l’unità cellulare della natura e di tutti noi”.

Anche Frattoli, quasi superfluo dirlo, vive come tutte le aree interne un drammatico fenomeno di spopolamento.  





Di residenti tutto l’anno ne sono rimasti circa trenta. 

Dopo le forti scosse molti di loro sono ospitati in un piccolo villaggio map. Luogo di ritrovo la trattoria del paese, dove puoi assaporare pietanze sincere e buonissime a poco prezzo.

L’inizio della fine qualche anno fa, quando uno degli ultimi dei boscaioli, uno dei principali mestieri del territorio, ha deciso di trasferirsi sulla costa adriatica, a fare, nientemeno, il bagnino.

Dopo il terremoto molte seconde case sono inagibili e dunque non possono ritornare i “forestieri”, ovvero coloro che da Frattoli si sono trasferiti nelle città, come la famiglia di origine di Claudio Orlandi, indispensabili per la vitalità e l’economia di questi paesi di montagna. 

Si spera fortemente in una ricostruzione post-sismica veloce e che non sia solo edilizia, ma che aiuti economicamente e burocraticamente le aziende vecchie e nuove disposte a resistere e insediarsi su queste montagne, per creare lavoro e manterere in loco i giovani.

“Io voglio un bene dell’anima alle persone che vivono qui, con alcune di loro ho trascorso le ore più liete della mia infanzia, sono sempre nel mio cuore, abitano in me – osserva a tal proposito Claudio – per loro quest’inverno è stata durissima, sono stati isolati dal mondo giorni e giorni, sommersi dalla neve, intrappolati in casa, con la terra che tremava sotto i piedi. Eppure si sono risollevati, come sempre hanno fatto. Sono persone straordinarie, capaci di tutto. E questo per me è un motivo di grande ottimismo per il futuro”.

“Non basta però il lavoro, l’economia – aggiunge il cantante – è importante anche riconquistare la familiarità con la bellezza, con l’arte e la musica, che sono una linfa vitale per le persone e per le comunità, a maggior ragione su queste montagne che si spopolano. Oggi purtroppo non percepisco questa forma di ricostruzione interiore, estetica. Del resto la nostra società è molto legata ai valori materiali, edonistici, non c’è molto spazio per l’arte, per la musica, che eppure rendono la vita sorprendente, imprevedibile e unica, ovunque tu sia”.

Orlandi qui a Frattoli sta raccogliendo energie ed idee per un nuovo progetto musicale, Pane play The Doors, un tributo acustico al leggendario gruppo americano che ha segnato la storia del rock e al suo leader James Douglas Morrison, morto giovane di troppa vita.

“Abbiamo cominciato per divertimento, arrangiando alcuni brani, soltanto con voce, chitarra acustica e  flauto traverso. Poi ci abbiamo preso gusto ed ora stiamo ultimando il lavoro vero e proprio in studio di registrazione. Del resto senza la poesia di Morrison e la musica dei Doors non so se avrei iniziato a cantare. È un omaggio dovuto, appena concluso il quale prenderemo a registrare i brani del nuovo disco Pane, con nuovi testi ed autori da scoprire, e non vediamo l’ora”.

A conclusione dell'insolito tour turistico, tornando sulla via di casa, una delle poche agibili di Frattoli, Claudio Orlandi tiene a mostrare anche un pollaio ricavato dentro una casa in pietra semiabbandonata, nei pressi della fonte.

Il gallo annuncia a pieni polmoni l’alba sul far del tramonto. In strada una vecchina spinge una carriola piena di legna. Tre bambini eccitatissimi urlano inseguendo un gatto nero e terrorizzato.

Un anziano acciambellato sulla panchina, dando le spalle alle macerie, fa collezione di attimi, godendosi il panorama che è sempre lo stesso da quando è nato.

“Tra qualche giorno dovrò lasciare questo paradiso – si congeda Claudio Orlandi – per tornare dentro quel mostro in fondo alla Salaria, avvolto da una nuvola di smog. Il paesaggio più incredibile resta comunque l'essere umano, quello che può essere risvegliato da un suono. E scrivere canzoni mi avvicinerà comunque al canto di questo gallo”.

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