“ARTE, MUSICA, CINEMA E TEATRO CI AVVICINANO ALL’ALTRO”, INTERVISTA ALL’ATTRICE MARZIA PELLEGRINO

di Giovanni Maria Briganti

1 Novembre 2021 11:06

Regione - Abruzzo, Cultura, Spettacoli, Tracce

L’AQUILA – “Credo che guardare un film, una pièce a teatro, un quadro o ascoltare un brano musicale sia una palestra per avvicinarci all’altro da sé e questo avvicinamento, questo tentativo di comprensione, si riflette inevitabilmente nella vita quotidiana, nelle relazioni, migliorandole. Se avessi una bacchetta magica farei in modo che tutto il mondo, ogni giorno, sentisse il bisogno di partecipare e vivere un momento di Arte nella propria vita, nella forma che più gli è vicina. E credo che questo determinerebbe una marginalità decisamente minore di tutto il settore spettacolo”

E’ solo un passaggio dell’intervista ad Abruzzoweb dell’attrice Marzia Pellegrino, foggiana ma abruzzese di origine, di San Sebastiano dei Marsi, in provincia dell’Aquila.

Diplomata in Recitazione presso l’Accademia Nazionale d’Arte drammatica “Silvio d’Amico” di Roma, nel corso della sua carriera, Pellegrino, ha avuto modo di approcciare molti diversi settori della cultura, passando dal teatro al cinema, lavorando con i nomi più illustri del mondo dello spettacolo, e ottenendo nel 2021 la nomination come migliore attrice al Pigneto film festival di Roma per il corto “Invisibile”. Appassionata di danza contemporanea e conoscitrice delle danze popolari del sud Italia, l’attrice  ha lavorato, fra gli altri, per il Teatro dell’Opera di Roma, il Teatro Massimo di Palermo e il Teatro alla Scala di Milano.

Marzia Pellegrino, lei ha anche delle origini abruzzesi…

Il mio bisnonno era originario proprio di questa bellissima regione, esattamente di San Sebastiano dei Marsi, vicino Pescasseroli. Quando ero bambina tutte le estati con la mia famiglia, per mantenere vivo il legame con questa terra, andavamo in vacanza nel Parco Nazionale d’Abruzzo. Ho dei bellissimi ricordi.

Lei ha origini abruzzesi ed è nata in Puglia, quando ha deciso di partire alla volta di Roma?

Appena ho compiuto diciotto anni. Desideravo studiare per diventare un’attrice. Dopo un primo provino andato male alla scuola “Paolo Grassi” di Milano decisi che Roma sarebbe stata la città più adatta per me e mi iscrissi prima all’Università, seguendo i corsi della facoltà di Antropologia, poi provai ad entrare all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”.

Ha superato al primo tentativo l’esame d’ammissione?

Sono stata ammessa a frequentare i corsi solo dopo cinque anni dal mio arrivo nella Capitale. Non provai subito l’esame d’ammissione però. L’anno in cui arrivai a Roma riuscii a frequentare il “corso propedeutico” gestito proprio dall’Accademia. Si trattava di un corso di un anno circa che permetteva, a chi voleva tenare l’esame di ammissione, di entrare in contatto con il metodo d’insegnamento accademico. Era un corso molto formativo e ben curato. Provai l’esame d’ammissione una prima volta solo un paio d’anni dopo il mio arrivo a Roma, ma non fui ammessa e poi, a ventitré anni, decisi di ritentare una seconda volta. Un pensiero mi accompagnava ed era questo: “che se fossi stata ammessa o no, il mestiere di attrice sarebbe stata la mia vita, con o senza la scuola”.

Questo “distacco”, questa sorta di “autolegittimazione”, le ha dato la spinta necessaria per superare poi una serie di prove molto difficili…

Esatto. Quell’anno, fu proprio questa “spinta” a infondermi l’energia necessaria per riuscire ad entrare in Accademia.

L’atteggiamento che Lei ha messo in campo in quest’occasione, è una chiara dimostrazione di quanto sia potente il momento in cui decidiamo di realizzare un grande obiettivo.

Se volessimo usare un termine proprio della filosofia buddista, quello fu un vero grande Ichinen.

Ovvero?

Quando, in un istante, con tutto/a me stesso/a, decido di vincere e di convogliare l’intero universo che vive in me verso una determinata direzione. Quando decido che, qualunque cosa accada, non mi farò scoraggiare dalle circostanze esterne. Quando si matura questo pensiero, niente potrà fermare un essere umano che decide di realizzare qualcosa di grande e infatti, quell’anno, il mio obiettivo era più grande del semplice esame d’ammissione. Non sono andata in Accademia per essere legittimata ad essere un’attrice e intraprendere il mestiere. Io quella legittimazione me l’ero già data, non avevo bisogno di qualcosa che dall’esterno mi autorizzasse. Io ero già un’attrice. Quindi se avessi avuto la possibilità di studiare in Accademia sarei stata contenta, in caso contrario, sarei stata comunque un’attrice.

Come ha vissuto questo anno di riposo “forzato”?





Quando è iniziata la pandemia, la mia occupazione principale era quella di insegnare Teatro ai bambini. I primi mesi – devo essere onesta – l’inconsapevolezza di star vivendo qualcosa di così grande e globale non mi permetteva di avere una chiara percezione dell’entità devastante di questo fenomeno. È stato molto strano, quasi “estraniante”. Ma il problema lavorativo, nel mio caso è passato in secondo piano…

Possiamo domandarle il motivo?

Perché durante la pandemia ho iniziato ad avere dei seri problemi di salute. All’inizio pensavo fossero di natura molto superficiale ma, col passare del tempo la situazione è peggiorata, fino a quando mi è stato diagnosticato un cancro. Durante il primo Lockdown, sono stata ricoverata in ospedale in condizioni davvero critiche. In quel momento, per me, iniziava una lotta più profonda. Dovevo combattere la mia battaglia individuale contro un male “personale”, all’interno di una grande “Guerra” mondiale contro un male “generale”. Il “riposo” dunque dall’attività lavorativa, per tornare alla domanda, nel mio caso, lo avrei registrato comunque.

Ma nonostante questa Sua vera e propria “lotta per la vita”, nel momento in cui tutto sembrava perduto, la vita le ha saputo far vivere una grande esperienza…

Avevo appena finito la chemioterapia ed era un periodo nel quale non affrontavo i trattamenti più invasivi. Ero fisicamente molto provata, così, incoraggiata dal mio ex compagno, decisi di “ricentrarmi” partendo dallo studio degli scritti di Nichiren Daishonin, fondatore del buddismo che pratico. Dopo due giorni, Aurin Proietti, la mia insegnante di recitazione in lingua inglese, mi scrisse per propormi un lavoro, un videoclip, domandandomi un paio di foto recenti da poter presentare al casting. Io ero molto imbarazzata perché, dopo la chemioterapia, non avevo più il mio tratto caratteristico: una lunga e folta chioma riccia. Le inviai due primi piani. Ero completamente calva. Lei non si lasciò condizionare e decise comunque di propormi. La sera stessa, il casting director Armando Pizzuti, mi contattò. Non solo non si era lasciato intimorire dalla mia “non-capigliatura” ma apprezzò molto il video di presentazione che gli inviai. Tempo poco mi disse che anche il regista che avrebbe dovuto dirigere il videoclip aveva visto il mio lavoro di presentazione e ne era rimasto davvero molto colpito e mi voleva assolutamente nel cast. Ero davvero felicissima, ma la frase di saluto che mi rivolse il casting director mi risultò un po’ strana perché mi disse “al regista è talmente piaciuto il video che lo ha fatto vedere anche a sua madre”. Non capii il perché di quell’appunto finale. Soltanto dopo, scoprii che il mio materiale era arrivato a Los Angeles, che il regista in questione era Edoardo Ponti e che “sua madre” era… Sophia Loren!

…e che il lavoro che avreste realizzato sarebbe stato il videoclip della canzone, vincitrice del Golden Globe e poi candidata al Premio Oscar, “Io sì” di Laura Pausini, colonna sonora del film “La vita davanti a sé”.

Questa è stata l’esperienza che mi ha riportato alla vita. È stata una sorta di “rinascita” per me. Il regista è stato di un’umanità estrema, una persona meravigliosa e lo considero un incontro davvero stupendo e prezioso. Edoardo Ponti, in quel momento così doloroso della mia vita, mi ha dato il permesso di essere esattamente ciò che ero, senza nascondermi. Lui mi disse “immagina a chi vorresti dire le parole di questa canzone, immagina una persona che vorresti incoraggiare”. Per me è stato davvero emozionante, perché quella sua accettazione, quella sua accoglienza, mi hanno “liberata”. È stata un’esperienza umana fortissima, prima di essere anche un’esperienza lavorativa. Poi il giorno delle riprese, non me lo scorderò mai. Ero lì, ero tornata a fare il mio lavoro e mi sentivo felice e a mio agio, come non mi sentivo da tanto. Quel giorno sono tornata alla vita.

Com’è entrato il buddismo nella sua vita?

Fu mia sorella Angela la prima a parlarmi del buddismo di Nichiren Daishonin. Me ne parlò da piccola, descrivendolo un po’ come una “bacchetta magica” per ottenere ciò che si desidera. Infatti per sperimentarlo direttamente, le primissime volte praticavo Daimoku (la preghiera buddista) per evitare di essere interrogata in Storia dell’Arte e vedevo che in effetti funzionava: arrivavo sempre alla fine del quadrimestre senza mai essere interrogata! Poi, crescendo, ho capito che il buddismo è un percorso di altra natura, non si tratta solo di ottenere dei benefici, non è un semplice “chiedere ed ottenere”, ma è il “come”, è il “percorso” che scopri dentro te stesso mentre cerchi di ottenere quello che desideri.

Per quanto concerne un altro tipo “percorso” – quello artistico – Lei ha avuto modo di approcciare diversi settori che compongono lo spettacolo: la prosa, la lirica, il Teatro danza, la danza contemporanea e popolare. Come nasce questa sua passione?

Le danze popolari hanno in sé una storia e quindi un fascino per me. La “pizzica”, per esempio, trae origine dai riti di possessione propri di certa parte del Sud Italia, riti che durante i corsi di Antropologia all’Università ho avuto modo di studiare e approfondire anche da un punto di vista storico e sociale perché rispecchiano una visione del mondo di un altro tempo, ma al di là di spiegazioni tecniche, la danza mi mette in contatto, senza filtri, con la gioia di vivere. Per me il “movimento” viene prima della parola. Ha una forza maggiore ed è la forma d’arte più spontanea per me. L’approccio alla danza è dunque più legato a questa mia gioia di vivere nel momento in cui, ascoltando la musica, mi muovo all’interno di essa.

Lei ha maturato diverse esperienze nel Teatro lirico ed è stata diretta da registi come Mario Martone, Gabriele Salvatores, Emma Dante e Graham Vick. Com’è iniziato questo “percorso” nell’ambito del Teatro Lirico e che tipo di approccio interpretativo ne ha fornito?

Ho iniziato grazie ad Emma Dante che mi ha scelta per la ripresa della “Carmen” di Georges Bizet e dell’opera “Gisela!” di Hans Werner Henze. Da lì lavorai poi con Graham Vick e il suo coreografo Ron Howell con il quale abbiamo realizzato due opere meravigliose. Non dimenticherò mai il primo giorno di prove con l’orchestra. Sentire che la musica, con le sue vibrazioni, ti attraversa e ti risuona dentro è una sensazione davvero emozionante. Il lavoro con la musica sinfonica è stato bellissimo e di grande esplorazione. Per  quanto riguarda poi l’approccio interpretativo, il fatto di aver studiato e di avere un bagaglio di esperienze come attrice è stato fondamentale, mi spiego: il compito di un attore/attrice dentro un contesto lirico è quello di saper creare una vita attorno ai cantanti/personaggi principali. I palcoscenici dell’opera lirica sono enormi e occorre che l’attore/attrice prenda il suo spazio. Sembra scontato, ma anche il più piccolo ruolo ha una grande responsabilità e spesso bisogna essere autonomi e propositivi.

Ha qualche ricordo personale che Le piacerebbe raccontare ai nostri lettori?

L’incontro e il lavoro con Emma Dante sono stati un’esperienza importantissima per me. Un’esperienza bella, forte, intensa e travolgente. Lei è in grado di far emergere dei lati “estremi” dai suoi attori e dalle sue attrici, sia al livello individuale sia al livello artistico. A me personalmente questo atteggiamento, questa tecnica, ha sbloccato e insegnato tantissimo ed è un metodo che ho adoperato anche in lavori successivi. Emma Dante mi ha insegnato che, sotto un certo livello di energia, determinate azioni sul palco non possono accadere. Questo è un punto fermo sul quale lei si soffermava moltissimo.

Chi altri può annoverare come incontri fondamentali nella sua formazione e nel suo lavoro?

Certamente Oretta Bizzarri, mia prima insegnate di movimento. Quello che so in materia di consapevolezza del corpo e della possibilità del movimento di trasmettere il proprio mondo interiore e di raccontare una storia, lo devo sicuramente a lei. Poi, durante gli anni in Accademia, Kristin Linklater per la recitazione e la voce, così come non posso non citare Roberto Romei. Devo inoltre riconoscere a Lorenzo Salveti il merito di avermi insegnato la tecnica di lettura e l’analisi di un testo scritto. Il rispetto del testo scritto e il mettersi al servizio dell’autore e del personaggio che si deve rappresentare li ho appresi grazie a lui. Infine vorrei citare Mario Ferrero. Era un “Maestro” vero. Ho avuto occasione di conoscerlo negli ultimi anni della sua vita. Dovete sapere che l’Accademia ha sede in una palazzina del quartiere Parioli ed è composta di più piani, ma senza ascensore. Lui era molto anziano e aveva difficoltà a camminare. Arrivava molto prima della sua lezione per salire le rampe che portavano in aula. Ci impiegava un tempo lunghissimo, era una sorta di “slow motion”, se comparato al ritmo dei ventenni che popolano l’Accademia. Questa sua determinazione nel salire gradino per gradino e l’amore che traspariva dai suoi occhi per la lezione che avrebbe tenuto, sono tra i più grandi insegnamenti che ho ricevuto da lui.





Lei ha parlato di Kristin Linklater. Quale approccio prevede il suo metodo?

Il metodo si intitola “per liberare la voce naturale” perché la teoria che muove questa ricerca è l’assunto secondo il quale, ciascuno di noi, per sopravvivere, sviluppa delle abitudini e dei blocchi che si riflettono sulla voce. La finalità ultima del metodo Linklater è quella di permettere di sbloccare tutti questi meccanismi di difesa per far emergere una voce “naturale”, connessa al corpo, che si faccia carico delle emozioni, dei pensieri e delle sensazioni, cioè di tutti quei sentimenti che abitano dentro di noi. Questo è utilissimo non solo per chi recita ma è fondamentale, a mio avviso, nella vita di chiunque comunichi attraverso la voce. Infatti nei corsi Linklater spessissimo si incontrano allievi e partecipanti che non hanno a che fare con il mondo dello spettacolo. È un metodo trasversale.

In Cinema Lei ha lavorato con Matteo Rovere, Sergio Rubini, Julia Shuvchinskaja, che esperienza ne ha tratto?

Quando il mio agente mi fece leggere una scena tratta dal film “Il primo Re” di Matteo Rovere mi sentì subito profondamente scossa, come se qualcosa avesse colpito una parte profondissima di me. Sentivo che c’era qualcosa che mi risuonava dentro. Si trattava di una scena di tre pagine in latino. Per impararla a memoria in vista del provino impiegai tre giorni interi e uno sforzo incredibile. Dopo aver sostenuto il provino avevo una buona sensazione, mi sentivo molto soddisfatta del lavoro che avevo preparato e di come si era svolto il provino. Ma purtroppo, non mi diedero la parte.

Lei però è nel cast del film…

Perché anche in questo caso, entra in gioco il buddismo.

Ci spieghi.

In quel momento della mia vita facevo un altro lavoro. Da qualche tempo non mi capitava più di lavorare come attrice, e dentro di me ero molto stanca e demoralizzata e mi “auto-deprecavo” una voce arcigna dentro di me mi sussurrava: chi sei tu per ottenere un ruolo da protagonista in un film? Mi capitò di andare ad una riunione buddista e lì raccontai del provino. Ero in lacrime. Il consiglio che mi diedero in quell’occasione fu di cambiare il mio Karma là dove ero, cioè, se in quel momento stavo facendo un altro lavoro, dovevo dare il mio cento per cento in quell’ambito. Dovevo essere la migliore in quel lavoro anche se non era il lavoro che sognavo e desideravo. Così feci. Dopo due mesi, la produzione del film, mi ricontattò per un altro ruolo per il quale mi sentivo perfettamente dotata. Senza il minimo dubbio. La voce dentro di me non era più arcigna, ma questa volta mi incoraggiava a mettere a disposizione il mio vissuto personale per dare vita alla storia. Richiamai dentro di me un momento molto drammatico della mia vita, perfettamente inerente a ciò che accadeva nella scena e ricordo che quando ebbi finito seguì il silenzio. Nessuno dei presenti riusciva a parlare. Io non saprei dire ancora oggi come sia andato quel provino, perché ero talmente dentro la situazione da esserne totalmente catturata. Poi, dopo pochi giorni mi comunicarono che il ruolo era mio!

Ora si sta aprendo la possibilità di tornare alla “normalità” per il mondo dello spettacolo. La domanda che le rivolgo è questa: è davvero auspicabile tornare alla stessa “normalità” che esisteva prima del Covid? Oppure occorrerebbe cercare di cogliere l’opportunità di migliorare questo settore?

Quello che è emerso da questa lunga pandemia – parlo per lo spettacolo dal vivo, perché le produzioni cine-televisive hanno sempre lavorato – è che il ruolo che il Teatro e dello spettacolo dal vivo rivestono nel tessuto sociale è davvero marginale, altrimenti non sarebbe stato possibile lasciare indietro queste attività così a lungo, mentre altre attività sono subito ripartite. Questo aspetto andrebbe senz’altro rivisto. Quindi tornare alla “normalità” sarebbe perdere un’occasione per riflettere. Un’esperienza negativa (come può essere il Covid) ti rende migliore nella misura in cui sei tu a decidere che quest’esperienza debba migliorarti piuttosto che incattivirti. Non lo so, ad oggi, se ci siano le premesse per un miglioramento non lo darei per scontato, purtroppo, ma mi piacerebbe che accadesse.

Come ha vissuto il rientro in un luogo di condivisione come può essere un Teatro o un Cinema?

Ho provato un’emozione forte, mi sono resa conto davvero di quanto mi sia mancato, soprattutto l’emozione di quel momento in cui le luci in sala si abbassano. Mi sono resa conto che una pratica così semplice come il riunirsi con altre persone in uno stesso luogo per condividere un momento di arte sia così semplice ma anche rivoluzionario. E mi sono resa conto di quanto mi fossi disabituata a tutto questo.

Se avesse la bacchetta magica, cosa farebbe per risolvere qualcuno dei problemi del settore dello spettacolo?

Farei in modo che qualsiasi persona possa sentire il bisogno di raccontare una storia o di ascoltarla, che credo sia il cuore di ogni forma d’arte. Ascoltare una storia ci spinge fuori dai nostri panni, ci aiuta a spostare il nostro punto di vista e ad esercitare l’empatia. Dopo tanto isolamento, c’è bisogno di qualcosa che ci unisca. E credo che guardare un film, una pièce a teatro, un quadro o ascoltare un brano musicale sia una palestra per avvicinarci all’altro da sé e questo avvicinamento, questo tentativo di comprensione, si riflette inevitabilmente nella vita quotidiana, nelle relazioni, migliorandole. Se avessi una bacchetta magica farei in modo che tutto il mondo, ogni giorno, sentisse il bisogno di partecipare e vivere un momento di Arte nella propria vita, nella forma che più gli è vicina. E credo che questo determinerebbe una marginalità decisamente minore di tutto il settore spettacolo.

Ci racconti di “Invisibile” il corto cinematografico di Lucrecia Cisneros Rincòn, vincitore dei “premio miglior corto”, “premio della giuria”, “premio miglior colonna sonora” e “premio migliore performance attorale” al Pigneto film Festival 2021 e che si è concluso da poco…

È stata un’esperienza fantastica. Questa è la seconda volta che ho la possibilità di partecipare al Pigneto film Festival che trasforma il quartiere Pigneto di Roma in un set cinematografico. Ogni anno vengono selezionati dei filmmaker stanieri, che hanno il compito di realizzare un corto ambientato al Pigneto, su un tema reso noto durante l’inaugurazione, in soli 5 giorni. Inoltre per tutta la durata del festival il quartiere si popola di eventi culturali di ogni tipo: proiezioni, letture, concerti, mostre e incontri, tutti completamente gratuiti. Quest’anno il tema era “vittime e carnefici”. Sono stata selezionata da Lucrecia Cisneros Rincòn, una giovane filmmaker venezuelana attivista per i diritti umani, che ha deciso di regalarci un corto ispirato ad una sua storia personale. Oltre all’incontro con lei, che è una giovane donna e una professionista fantastica, ho avuto modo di lavorare con dei colleghi attori meravigliosi, con una band che ha curato la colonna sonora, gli ET//AL., creando delle musiche bellissime appositamente per il corto e con una squadra dei giovanissimi allievi dell’Accademia Griffith di Roma che si sono occupati di tutto ciò che concerne la parte tecnica e organizzativa della realizzazione del corto, dalla produzione, al montaggio, alla fotografia, alle riprese… In una parola: meraviglioso! Un’esperienza unica, in cui abbiamo accorciato le distanze fra di noi e si spera anche col pubblico, che ha ascoltato questa storia. Ci tengo a ringraziare gli organizzatori del Pigneto Film Festival, tutti volontari, che rendono possibile e concreta questa rete umana e creativa rappresentata dal festival. È stato davvero bello avere la possibilità di mettermi al servizio di questo progetto e poter vedere all’opera questi ragazzi, che sono ancora studenti, ma per serietà e competenza sono già dei professionisti pieni di talento. A loro auguro tutti i set del mondo, se è questo che li rende felici e a chi ci legge, che siano artisti o no, auguro di riuscire a mettere a tacere la voce arcigna per un poco e di ascoltare invece la voce più profonda che alberga in noi e ci incoraggia a credere al nostro immenso valore, a quello degli altri e ci infonde fiducia nel futuro.

foto di  Nikolai Selikovsky

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