ATTI PROCESSO VAJONT: E’ SCONTRO, TORNERANNO ALL’AQUILA MA A BELLUNO VOGLIONO TENERSELI

29 Maggio 2023 09:35

L'Aquila - Cronaca

L’AQUILA – Entro fine anno gli atti del processo Vajont dovranno tornare all’Aquila. Trasferiti all’Archivio di Stato di Belluno dopo il  sisma del 2009 che devastò l’archivio del capoluogo abruzzese, i faldoni sono rimasti  lì per  anni in virtù di una serie di proroghe ottenute nell’ambito di un corposo  restauro, digitalizzazione e valorizzazione culminato, pochi giorni fa, con l’iscrizione al registro Unesco “Memoria del mondo”. Gli atti torneranno in Abruzzo perchè i processi furono celebrati all’Aquila.

Lo si legge sul Corriere delle Alpi che lancia l’allarme. Il disastro del Vajont, il 9 ottobre 1963, nel bacino idroelettrico del torrente Vajont, fu caratterizzato da una frana  che precipitò dal monte Toc nel bacino alpino con il superamento della diga: il fondovalle veneto fu distrutto e tra Longarone  e altri piccoli centri ci furono 2mila vittime.





«Gli atti processuali del Vajont», ricorda al Corriere delle alpi  il sindaco di Longarone, Roberto Padrin, «contano oltre 250 faldoni, che in questi anni sono stati digitalizzati con un finanziamento della Fondazione Vajont e di altri enti, con l’obiettivo di metterli in rete a disposizione di tutti. Inoltre una parte del materiale risultava danneggiato ed è stato fatto restaurare. Questa complessiva operazione di valorizzazione, che ha portato anche al riconoscimento Unesco, ha comportato un impegno economico non indifferente. La norma però impone che i fondi processuali rimangano nella città dove si è celebrato il processo».

Tutti nel bellunese sono schierati in tale direzione e alcuni politici locali al punto che i 5 Stelle veneti hanno presentato una interrogazione al presidente della Regione Luca Zaia per la permanenza dei 250 faldoni anzichè farli tornare all’archivio di Stato aquilano che li reclama di continuo. Del resto, meno di un paio di anni fa, la direzione generale degli Archivi di Stato confermò che il fondo sarebbe tornato all’Aquila.

I processi di primo e secondo grado si tennero all’Aquila per “legitima suspicione” su decisione della Cassazione  ritenendo che celebrarli in Veneto o Friuli avrebbe esposto le parti a condizionamenti intollerabili.





“Fu un processo difficile”, ebbe a dire in una conversazione al redattore di questo articolo il compianto avvocato Bernardino Marinucci, il quale, lo sappiamo, a metà anni sessanta, con il padre, Gustavo e  altri autorevoli legali, difese gli imputati, “le parti civili erano furiose e in qualche occasione alcuni  si mostrarono davvero critici e si scagliarono contro di noi, anche fuori dal tribunale, come avvenne una volta, per caso, in un locale. Noi stavamo facendo solo il nostro lavoro di avvocati. Ma da parte nostra ci fu sempre la massima comprensione del loro stato d’animo  visto che avevano perso affetti e  beni in pochi secondi senza averne colpa”.

La vicenda si concluse in  Cassazione nel 1971 quando due manager vennero riconosciuti colpevoli di inondazione aggravata e uno fu condannato a 5 anni e l’altro a 3 anni e otto mesi ma essi beneficiarono di un condono  di tre anni.

Solo nel 2000 Stato, Enel e Montedison si accollarono i  cospicui risarcimenti.

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