CULTURA, D’AMICO: “DAL COVID PUO’ NASCERE UN NUOVO TEATRO, TUTELARE GIOVANI E LAVORATORI”

29 Marzo 2021 08:01

L'Aquila - Cultura, Tracce

L’AQUILA – “Dal Covid può nascere un nuovo Teatro”. Parte dagli effetti che l’emergenza coronavirus sta producendo nel mondo del Cinema, del Teatro e dell’Arte a 360 gradi l’intervista che ci porta sulle tracce di Cecilia d’Amico, 35 anni, attrice, regista e autrice romana, vincitrice nel corso della sua carriera di numerosi riconoscimenti sia in teatro (Premio Bravograzie! 2014) sia in Cinema, aggiudicandosi la “Miglior interpretazione al Festival del Cinema di Roma” nel 2010.

L’attrice, impegnata sia in ruoli drammatici sia comici, non a caso, è anche docente di recitazione e scrittura drammatica in diversi contesti universitari e si racconta ad Abruzzoweb iniziando con il confessare le origini abruzzesi.

Sabato scorso in tutto il mondo si è celebrata la giornata del teatro, e quella che doveva essere una giornata di festa, dopo un anno ancora a sipari chiusi,  è stata una giornata di proteste simboliche e di silenzio.

Cecilia d’Amico ha un  curriculum importanti nel quale affiorano rapporto con nomi illustri dello spettacolo: è stata allieva di Mario Ferrero, Luca Ronconi, Anna Marchesini, Federico Tiezzi e Sandro Lombardi, da professionista ha recitato in Teatro diretta da Lorenzo Salveti, Paolo Giuranna, Lilo Baur, Giuseppe Marini e Guglielmo Ferro; nel Cinema ha lavorato in film diretti da Carlo Verdone, Luca Miniero e Neri Parenti recitando al fianco di attori del calibro di Paolo Bonacelli, Francesca Benedetti, Franca Nuti, Pierfrancesco Favino, Anna Bonaiuto e Luca Argentero, citandone solo alcuni. In particolare, a Carlo Verdone ha dedicato la sua tesi di laurea.

Cecilia d’Amico, il suo illustre bisnonno, Silvio d’Amico, celebre critico teatrale e fondatore dell’Accademia d’Arte Drammatica (oggi a lui dedicata) era originario proprio di questa regione…

Sì. Suo padre era di Torricella Peligna, in provincia di Chieti, e, lavorando nell’edilizia, fu chiamato a Roma da suo zio per costruire il Palazzo delle Esposizioni. Da quel momento non se ne è più andato.

È stata di recente nella regione dei suoi antenati?

L’anno scorso. Ero in tournée con lo spettacolo “La classe” di Vincenzo Manna per la regia di Giuseppe Marini. Era fine febbraio e facevamo tappa prima a L’Aquila e poi a Sulmona.

Come ha vissuto quegli istanti?

Già si parlava di questa esplosione di contagi ma eravamo ancora ignari di quanto sarebbe successo solo una settimana dopo. Durante le varie recite della tournée vedevamo le prime defezioni del pubblico. La gente iniziava ad avere paura e la sera, anche se aveva comprato il biglietto, preferiva non venire a Teatro. Per questo ci colpì moltissimo il pubblico de L’Aquila che, nonostante tutto, aveva mantenuto l’impegno di venire a vedere la pièce e aveva riempito il Teatro. A fine spettacolo ci applaudimmo a vicenda.

Come giudica, in qualità di “addetta ai lavori”, la chiusura dei Teatri?

È un argomento molto delicato visto che in ballo ci sono intere persone, e quindi famiglie, che da un anno devono fare i conti con questa chiusura. Dietro ogni Teatro ci sono tecnici, sarte, costumisti, direttori di scena, amministratori, attori, uffici stampa… solo per citare qualche figura professionale. Mi rendo conto però che fosse necessario chiudere per la gravità dell’emergenza sanitaria: quest’anno io stessa ho perso persone care a causa del virus, persone di ogni età, anche giovani. Personalmente sono stata fortunata perché sono in salute e perché, in autunno, sono riuscita a lavorare come assistente alla regia e attrice in uno spettacolo che, anche se non è andato in scena, si è comunque allestito. Noi attori non possiamo lavorare con le mascherine e il distanziamento, quindi anche se siamo stati attenti, l’amministrazione del Teatro ci sottoponesse settimanalmente al tampone e si rispettassero tutte le disposizioni anti-Covid, il rischio di contagio è stato comunque molto alto. Per non parlare poi se si dovessero riprendere le tournée che implicano, viaggi, ristoranti, alberghi, incontri e quindi si moltiplicherebbero le occasioni di contrarre il virus. In questo caso, se un membro del cast o uno del personale tecnico risultasse positivo, tutta la compagnia rimarrebbe in quarantena nella piazza in cui si trova? Chi rimborserebbe i viaggi e gli spettacoli? Il teatro che dovrebbe ospitare o la produzione? E chi pagherebbe eventualmente l’intero periodo di quarantena alla compagnia? Inoltre la maggior parte dei teatri, quelli privati, non può sostenere i costi di una produzione con gli ingressi del pubblico contingentati. È evidente che non ci sono le condizioni per riaprire. Sarebbe dunque più saggio stanziare fondi e ristori fino alla fine dell’emergenza. Chi esulta per la riapertura sono o i teatri pubblici – che beneficiano dei finanziamenti statali – o la solita élite che adesso sarà ancora più esigua. Per questo non mi sono sentita di criticare la scelta della chiusura forzata. Credo che si potrà tornare a riaprire in sicurezza solo quando si sarà vaccinata la maggior parte dei lavoratori dello spettacolo. Per il pubblico invece il teatro è un luogo assolutamente sicuro e il rischio di contagio è praticamente nullo. Comunque, sono ferma nel sostenere che a una prolungata chiusura debba corrispondere anche il prolungamento delle tutele che il precedente governo ha messo in campo.

Ritiene che tra i due governi che si sono succeduti nel corso della pandemia ci siano state delle differenze nella tutela dei lavoratori dello spettacolo?





Nel mio caso, grazie ai decreti ristori del governo Conte bis, alle associazioni di categoria come il Nuovo Imaie e con i soldi stanziati dal Mibact sono riuscita a recuperare la quasi totalità dei compensi che avrei guadagnato se le tournée alle quali avrei dovuto partecipare avessero avuto luogo. Grazie a loro ho potuto superare il 2020 con una relativa serenità economica. Purtroppo il nuovo governo ha tardato nell’erogare i soldi già stanziati dal precedente e ha chiarito che quelli saranno “gli unici”. Questo ovviamente non va bene e mette a rischio la sopravvivenza stessa di molti teatri e la vita di innumerevoli famiglie.

Lei ha lavorato con nomi importanti, in particolare, a Carlo Verdone ha dedicato la tesi di laurea.

È stato il mio primo grande punto di riferimento, sin da piccola. Lo considero un fuoriclasse. A lui mi sono ispirata nel mio personale percorso di scrittura comica e costruzione dei personaggi. Considero un grande onore aver iniziato la mia carriera cinematografica diretta da lui in “Io, loro e Lara” nel 2010 e “Posti in piedi in Paradiso” nel 2012. Onore che ho voluto ricambiare dedicandogli nel 2013 la mia tesi di laurea specialistica in Arti e scienze dello spettacolo dal titolo: “Carlo Verdone e la televisione”.

Lei ha un bagaglio di esperienze che spaziano dal repertorio serio e “impegnato” alla commedia classica e contemporanea. Quale tra questi generi le è più affine?

Sin dagli anni della formazione ho maturato una certa predisposizione alla comicità. Questa nel tempo mi ha permesso di realizzare tre one-woman-show comici, scritti, diretti e interpretati da me: “Vaga Show”, “Underwood” e “Ora et La Bora” che ho portato in tournée in diverse città italiane e che a Roma hanno debuttato rispettivamente al Teatro India, al Teatro Parioli – “Peppino De Filippo” e al Teatro Vittoria – Attori&Tecnici.

Quindi oltre alla recitazione, lei è riuscita ad approfondire molti altri “lavori” artistici come la scrittura e la regia.

Esperienze importanti sono state quelle in qualità di assistente alla regia per il Maestro Guglielmo Ferro in occasione della messa in scena degli spettacoli: “Il fu Mattia Pascal” di Luigi Pirandello e “Il Malato Immaginario” di Molière. Seguire l’allestimento di uno spettacolo importante con un Maestro della regia è davvero molto formativo.

Oltre alla Prosa si è fatta strada anche nel mondo della Musica…

Nel 2018 ho vinto un concorso indetto dalla Biennale di Venezia, scrivendo il libretto dell’opera di Teatro musicale da camera “Rodi, rodi, morsicchia! La casina chi rosicchia?” per la musica di Sofia Avramidou. Questa esperienza mi ha permesso nel 2019 di essere scelta dall’attuale Direttrice Artistica della Biennale Musica, Lucia Ronchetti, per dirigere la sua commedia strumentale dal titolo “Le avventure di Pinocchio” prodotta in collaborazione con il Teatro dell’Opera di Roma. In seguito ho continuato a scrivere diversi libretti d’Opera, l’ultimo dei quali verrà prodotto quest’anno – Covid permettendo – per i centocinquant’anni di Roma Capitale per la musica di Fausto Sebastiani e Stefano Cucci.

Di cosa parlano i suoi spettacoli?

I miei one-woman-show ironizzano sulle nevrosi che affliggono la nostra società e sono valorizzati dalle scene appositamente ideate e create dalla  mia scenografa, l’Architetto Laura Giusti. In ogni spettacolo interpreto più personaggi. Nel primo spettacolo che ho scritto “Vaga Show” interpreto quattro personaggi, nel secondo, “Underwood”, ho raddoppiato il numero mentre nel terzo, “Ora et la Bora”, arrivo ad interpretarne oltre quaranta. Molti anche contemporaneamente. Prendo spunto dalla vita quotidiana.

Dunque la vicinanza del pubblico e la sua reazione sono alla base del suo lavoro?

Assolutamente.

E in un momento di “riposo” come quello imposto dalla pandemia?





“Riposa” anche la mia produzione, ovviamente. Continuo a scrivere una serie d’idee anche adesso ma la vera e propria scrittura e lo studio dei tempi comici avviene necessariamente solo in presenza del pubblico. Non posso prescindere dall’interazione con il pubblico.

Lei non sembra appoggiare quindi la linea di un Teatro on-line…

Capisco che si sia cercato di correre ai ripari in una situazione di chiara emergenza ma il Teatro è per sua natura interazione ed è un “atto in presenza”. A maggior ragione se parliamo di comicità. Le attività on-line sono un palliativo, sono attività che possono più o meno interessare ma non sono Teatro. Sono un’altra cosa. Se si parla di Teatro in questo periodo o non si fa nulla o la cosa migliore sarebbe dedicare questo tempo a ripensare una nuova struttura e un nuovo sistema teatrale dalla base, per una rinascita che dia spessore alla professione, visto che il sistema che ci siamo portati avanti fino ad oggi fa acqua da tutte le parti. Questa è la grande occasione che ci fornisce il Covid.

Le viene in mente qualche suggerimento per favorire questa “rinascita”?

Visto che nel corso degli anni, per assicurarsi un certo ritorno di pubblico, le grandi compagnie e i Teatri sia pubblici che privati hanno prediletto le drammaturgie conosciute o a trazione prevalentemente di autori internazionali già noti, si potrebbe o sovvenzionare i Teatri e le compagnie con lo scopo di favorire la drammaturgia italiana contemporanea e i giovani autori, oppure lo Stato potrebbe creare nuovi contesti, seri e stabili, volti a promuovere la drammaturgia contemporanea e i giovani autori. Infatti, da sempre, gli autori contemporanei, e soprattutto i giovani autori, sono stati relegati ai margini delle proposte teatrali italiane nonostante tra loro ci fossero (e ci siano tutt’oggi) delle opere di ottimo valore.

Lei suggerisce quindi un Teatro che riparta dalla “parola”?

Credo che negli ultimi tempi ci sia stato un predominio o del Teatro di repertorio o del cosiddetto “Teatro di Regia”. Un Teatro quest’ultimo in cui tutto viene incentrato su idee, visioni e stravolgimenti da parte del regista. Con questo non voglio dire che non ci debbano essere simili proposte, ogni espressione artistica ha il suo valore, dico solo che queste non possono essere le uniche o le predominanti. Soprattutto per quanto riguarda i Teatri pubblici. Oggi anche le nuove generazioni di Registi, formatisi su questi modelli, creano degli spettacoli partendo dalle loro “visioni” e non scelgono più (o raramente) di partire da un testo strutturato. Così, nella remota eventualità di ritrovarsi a mettere in scena il testo di un autore, nella maggior parte dei casi, lo stravolgono totalmente a uso e consumo delle “immagini” che “vedono” finendo per appiattire ogni dinamica narrativa. Il risultato è che purtroppo non sono in grado di valorizzare una storia. Come auspicava un secolo fa Silvio d’Amico: “dalla ‘parola’ del Poeta deve nascere la nuova scenotecnica, il nuovo edificio teatrale, insomma il Teatro nuovo”. Per questo ritengo oggi ancora di più che, quando si potrà riprendere a pieno regime, la parola possa andare al Poeta della scena nuova.

Lei le giovani generazioni ha avuto modo di conoscerle in qualità di docente…

Dirigo dei corsi di recitazione, di drammaturgia e sulla comicità. Nello specifico ho tenuto anche un seminario dal titolo “L’intelligenza del comico” presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma. Il seminario e i miei corsi sono incentrati sulla creatività del singolo allievo, sulla tecnica, sullo studio del tempo comico e sulla costruzione di una drammaturgia del teatro comico che si discosti dal linguaggio televisivo e cabarettistico.

Lei è l’unica d’Amico della famiglia ad aver frequentato i corsi in Accademia. Che cosa ricorda degli anni passati tra le mura dell’Istituto che ora porta il nome del suo bisnonno?

Ho vissuto i momenti più tumultuosi dell’Accademia perché sono stati gli anni in cui noi studenti ci siamo dovuti rivolgere direttamente al Ministero della Pubblica Istruzione per denunciare una mala-gestione dell’attività didattica e la scarsa qualità del corpo docente non all’altezza dell’unica Istituzione d’Arte Drammatica nazionale presente in Italia. Proprio in quel periodo, studiando lo Statuto dell’Accademia, ho scoperto che alcuni fondi, destinati ai progetti degli allievi, venivano invece utilizzati per scopi personali dall’allora Direttore. Così, insieme alla mia amica e collega Claudia Crisafio, abbiamo riottenuto quei fondi e abbiamo fondato il Festival ContaminAzioni dedicato ai progetti degli allievi e diplomati dell’Accademia e che, nel corso degli anni, ha esteso la sua collaborazione anche agli allievi del Conservatorio di Santa Cecilia e dell’Accademia di Belle Arti e che ora, giunto alla sua undicesima edizione, è ospitato dal Teatro di Roma.

Quindi, secondo lei, cosa sarebbe auspicabile per il futuro del Teatro e della Cultura?

Oltre a un’attenzione maggiore alla nuova drammaturgia e alle nuove generazioni di artisti e di organizzatori teatrali, vorrei che l’occasione che ci fornisce la Pandemia, fosse l’inizio di una presa di coscienza maggiore “del” mondo dello spettacolo e “sul” mondo dello spettacolo, così da poter riscrivere una nuova legislazione e dare spessore al mestiere dell’attore costituendo, come già suggeriva Eduardo De Filippo, un vero e proprio albo professionale con tutte le tutele che ne conseguono.

 

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