”DON” ATTILIO CECCHINI, ”IO E JUAN PERON”; ”L’AQUILANITAS FARA’ RINASCERE LA CITTA”’

di Alberto Orsini

18 Febbraio 2018 09:30

L'Aquila -

L’AQUILA – Giornalista corrispondente dal Venezuela, amico del presidente argentino Juan Domingo Peron, poi di ritorno nella sua L’Aquila avvocato che si è conquistato nel tempo i galloni di più autorevole esponente del foro, e ancora candidato sindaco, terremotato, teorico del concetto di “aquilanitas” intesa come forza atavica e misteriosa di una città, sua zavorra e principale carburante nello stesso tempo.

Ci vorrebbe un libro per raccontare la vita di “don”, come lo conoscono tutti, Attilio Cecchini, 93 anni, avvocato a tutt’oggi in piena attività, occupandosi con la stessa passione dei grandi processi del post-sisma 2009, dov’è stato sia dalla parte degli accusati che contro, come della routinaria cronaca giudiziaria in cui la città, purtroppo o per fortuna, è tornata a 9 anni dall’accaduto.

Con lui AbruzzoWeb affronta un pezzo di storia d’Italia e della città, con una riflessione sul fenomeno migratorio di oggi visto da chi migrante lo è stato, il ricordo di uno dei casi più delicati, l’omicidio di Balsorano che lo vide assistere il grande accusato, Michele Perruzza, sconfitte e vittorie in aula e un ritratto certosino di quello che deve o dovrebbe essere l’avvocato penalista.

In tutto questo, Cecchini è sicuro di una cosa: la città “rinascerà, anche se ci vorrà ancora molto tempo”, e la sua aquilanitas “sugli ingranaggi della ricostruzione, getterà dentro adrenalina, forza, veleno e cattiveria. Così è”.

“Don Attilio”. Quando e come è nato l’appellativo, lo sa?

Non ne ho idea, mi ci chiamano da anni, ma a chi sia venuto in mente non lo so. Si è popolarizzato dopo il mio rientro in Italia dal Venezuela nel 1960. Oggi capita che anche chi non mi conosce spesso mi chiama così, sarà colpa di voi giornalisti!

Che cosa la spinge a continuare a lavorare a pieno ritmo alla sua età?

Questo mestiere è molto intrigante, finisce che ti fa appassionare alle vicende: malgrado l’avvocato debba mantenere una certa distanza dal cliente, è più forte di noi. Si finisce per contrarre una specie di sindrome di Stoccolma, ti appassioni al caso, ti innamori, soffri nell’ipotesi che le cose non vadano secondo le tue aspettative. Quando fai l’avvocato devi essere convinto, perché con questa professione è facile giocare, sposare la causa di chi ha torto.

Quali sono le doti del grande penalista?

Deve intuire, deve avere questo “naso” per le ragioni del proprio assistito. Non deve mai forzare il cliente a rivelargli le cose. Se le sapesse, poi non saprebbe sostenere il contrario con convinzione, perché al penalista non si chiede solo la capacità di esporre, ma anche passione con cui farlo. E poi non si finisce mai di imparare. L’avvocato non è soltanto il giurista: è lo psicologo, il chirurgo, il divinatore, perché a volte vengono intuizioni che illuminano la scena. È un illusionista, e anche un po’ mago.

Si guarda indietro ed è questa la carriera che vorrebbe ripetere?

Nel caso Perruzza sono lo sconfitto. È stata una disillusione così forte che, alla chiusura della mia vita professionale, in caso di rinascita, di metempsicosi, dico no, non tornerei a fare il penalista, perché la delusione della sconfitta travolge anche i momenti felici della professione. Continuo oggi con lo stesso convincimento, ma non riprenderei il cammino.

Una grande vittoria che invece ricorda in modo particolare?

Difendevo un imprenditore romano accusato di bancarotta fraudolenta, per aver esposto in bilancio una partita falsa. In una notte mi svegliai di colpo e pensai tra me che no, in realtà era un partita di giro perché gli era stata ingiustamente addebitata come sottrazione. Telefonai al professor Fichera, esperto della materia, gli spiegai la mia tesi e mi disse che avevo ragione. Mi avevano avvisato, nella quarta sezione penale c’era un presidente di collegio terribile. Ascoltandomi rimase indifferente, ma dopo solo dieci minuti di camera di Consiglio rientrò e pronunciò l’assoluzione perché il fatto non sussiste. Il cliente era sicuro che la sentenza sarebbe stata di condanna. Alla fine, a un mio amico quel giudice confessò: quell’avvocato mi ha fregato. È stata una delle esperienze più belle della mia vita professionale, che un magistrato convinto della sua tesi si sia fatto convincere dalla mia e poi abbia perfino avuto l’onestà intellettuale di darne atto.

La più grande sconfitta è quella del caso Perruzza?

Certo. Ho affrontato con questo spirito il caso per sentirmi dire che la Cassazione rigettava la mia istanza di revisione del processo, quella volta non ce l’ho fatta. Avrei comunque continuato a sostenere la tesi, ma mi morì il cliente in carcere, proprio mentre presentavo nuovi argomenti per la revisione. La notizia mi distrusse, soprattutto quell’aspetto che al tassinaro che lo portava in ospedale Perruzza aveva confessato nelle sue ultime parole: “Di’ a tutti che non sono stato io”.

Ha pensato mai di abbandonare la professione per questo?





Mai. È una ferita rimasta aperta che porterò sempre, comunque al momento in cui cala il sipario posso dire che non tornerei sulla scena.

Quando sa di dover difendere un colpevole, non ha sensi di colpa?

Rifiuto che mi si dica che ho assistito un colpevole, non lo voglio sapere. Io provo a indagare, a scoprire prove, a insinuare il dubbio. In via subordinata, si chiede l’insufficienza di prove, una formula che, peraltro, ho sempre combattuto, anche se il legislatore non l’ha abolita. Sono convinto che in una prossima riforma si debba eliminare. In dubio pro reo, dicevano i latini: non bisogna lasciare l’ombra o il sospetto sul cittadino. Comunque, in tutti i casi che uno affronta il dubbio sulla responsabilità del tuo assistito ti rimane. Perfino nel caso Perruzza, l’ostinazione con cui il nipote lo accusava mi fece pensare.

Prima ancora di vestire la toga, ha fatto il giornalista all’estero.

L’ho fatto alla grande, dieci anni in incognito attraverso uno pseudonimo, Menotti e altri, perché c’era la dittatura militare ed ero in pericolo. Quando Paese Sera celebrò i suoi primi dieci anni, pubblicò una cartina con i volti e i nomi di tutti i corrispondenti; in Venezuela indicava il nome di Menotti, e una faccia non certo mia. Tante volte sono finito in prima pagina, la testata coltivò questa corrispondenza con grandissimo interesse. Negli anni Cinquanta il Sudamerica era un continente schiacciato, come peraltro tuttora, dall’egemonia nordamericana. C’era sempre il pericolo che succedesse qualcosa, e con Fidel Castro, simbolo dell’irredentesimo sudamericano, la battaglia l’hanno persa.

Un altro simbolo, Peron, lei lo ha anche intervistato.

Alla fine ci sono diventato amico! Dopo la defenestrazione riparò in Venezuela, dov’era al sicuro, tanto che poi proseguì da lì la battaglia politica e tornò perfino al potere. Ci conoscemmo per caso. Tornavo a casa, una palazzina che si affacciava sulla Avenida Urdaneta, una delle più belle strade di Caracas. Mia moglie cominciò a parlarmi di uno strano signore, sempre in mutande, che girava per casa sua e riceveva un sacco di gente. Era al palazzo di fronte, all’ottavo pieno come me, perciò si vedeva. Mi incuriosii e andai dal portiere, che era italiano. Alla mia domanda di sapere chi fosse, rispose: “Dotto’, non posso dirlo”. Alla fine riuscii a strappargli la verità. Con lui c’era una ragazza bionda con due cagnolini, che poi sempre mia moglie incontrava in strada mentre li portava a spasso: era Isabelita, allora segretaria, la sua compagna che poi divenne presidente.

Che tipo era?

Discutevamo molto. Era stato in Italia, aveva fatto l’ufficiale a Chieti, perché era di origine italiana. Il suo cognome originario era Perone, il nonno era emigrato in Argentina dalla Corsica. Aveva imparato dall’Italia e aveva anche conosciuto il duce: mi disse che si era molto ispirato a Mussolini per la dottrina del corporativismo che aveva applicato nel suo Paese. Il “Giustizialismo” era una nuova dottrina che prevedeva il ripopolamento dell’Argentina con gli italiani, suo fu il primo piano quinquennale che aprì le porte.

A proposito di emigrazione, anche lei si è trovato in quei panni.

Sono partito per il Venezuela come trattorista agricolo, senza un soldo e in terza classe. Poi all’ambasciata mi hanno corretto il passaporto in giornalista. Il piroscafo Portugal dove salii era in disarmo, all’ultimo viaggio, in uno dei tanti viaggi siamo rimasti 48 ore alla deriva prima di sbarcare e a me toccò intrattenere i passeggeri per evitare il peggio.

Come venivano trattati gli italiani?

Quello dell’immigrazione italiana era il primo problema che mi si pose quando scrivevo per la Voce d’Italia, e così me ne occupai. La dittatura militare aveva aperto le porte del Paese per ripopolare il Venezuela e trasformare chi arrivava in strumento elettorale. “Estendo il voto agli immigrati, consegnerò il Paese ai loro figli”, disse il dittatore Marcos Perez Jimenez, e questi sciocchi gli dettero il voto. Si votava intingendo il pollice nell’inchiostro e lasciando la propria impronta digitale, serviva pure come prova per dimostrare a chi di dovere di aver votato. Chi non era fascista, come me, disertò le urne.

A fronte di questo grande afflusso, c’erano le condizioni per vivere dignitosamente?

Il famoso articolo 18 imponeva all’aziende di dare lavoro per il 75% alla manodopera locale e solo per il 25% agli immigrati. Cominciò la mia battaglia contro questa situazione e contro il dramma di chi arrivava e non sapeva che doveva fare. Le imprese davano anche lavoro in più, sottobanco, ma al prezzo che dicevano loro, e anche questo fu denunciato. Un giorno l’ambasciatore Renato Bova Scoppa mi disse: se lei conosce questo Menotti, gli dica di stare molto attento. Aveva intuito la mia doppia identità. E quando se ne andò alle Nazioni Unite, nella sua relazione, che poi ho avuto, scrisse anche che tra le cause di diminuzione dell’afflusso italiano in Venezuela c’era da annoverare la “sistematica campagna denigratoria” del Paese Sera.

E oggi che i migranti arrivano in Italia, che cosa pensa?

Sono il testimone di coloro che migranti lo sono stati, so che cosa significa. Questa gente che arriva la capisco. Non parliamo di quella quota di rifugiati politici o delinquenti, parlo di chi entra in Italia come noi eravamo migranti, in cerca di lavoro e di migliorare la propria vita. A questa gente che arriva qui il lavoro lo dobbiamo procurare, per coerenza conduco la stessa battaglia che facevo allora. Altrimenti diventano di volta in volta delinquenti, stupratori e spacciatori. Io sono dalla parte loro, ma sono anche contro l’immigrazione massiccia e incontrollata: l’ho vissuta lì, venivano in centinaia al giorno su carrette del mare. Non è possibile, gli ingressi vanno calmierati e misurati secondo le esigenze.





Nel 1960 il ritorno all’Aquila, che città ritrovò?

Dopo il boom economico sono stati i migliori anni possibili per L’Aquila, una stagione indubbiamente positiva. Tuttavia, proprio allora sono stati commessi errori fondamentali: su tutti, quello dell’autostrada che si biforca ad Avezzano, non si doveva commettere. Ci ha fregato l’errore politico di quell’epoca, costruirla in quel modo significava metterci in competizione con Pescara, e come fa a non prevelare la costa su noi rifugiati di montagna?

La questione del capoluogo è rispuntata fuori anche di recente…

Sta ricacciando e non è giusto. Anche la Bolivia ha la sua capitale commerciale, La Paz, e quella storica, Sucre. Nei moti del 1971 ho fatto anch’io la mia battaglia. Ero molto amico di Luciano Fabiani, che si era battuto, accettando una spartizione non nelle aspettative ma bisognava pur scendere a compromessi. Lui mi sostenne anche quando, nel 1994, mi candidai a sindaco della città.

Come mai non funzionò?

Perché mi incazzai e feci capire che non avrebbero potuto fare di me uno strumento politico, non mi sarei prestato.

Influirono anche le mitiche “famiglie” aquilane di cui tanto si parla?

“Se tu pesti un callo a via Cascina, risponde un grido di dolore a viale Crispi”, dicevo sempre su questo. Non si sa chi sono queste famiglie, però in effetti all’Aquila c’è un tessuto sociale strano, viene considerata una città di destra. C’è una situazione antropologica particolare, strani circuiti, ma valli un po’ a individuare! Però esistono. È come una corrente sotterranea, che ha potere vero. Mi fregarono, rimasi molto deluso. Mi esposero e poi fregarono. Sono stato un po’ vittima di questa mentalità.

A freddo, che idea si è fatto del processo alla commissione Grandi rischi?

Non capisco, e su questo sono contro un certo establishment, l’assoluzione degli scienziati, per me erano responsabili. Loro dicono che la commissione fosse non formalmente costituita, ma non sono d’accordo sebbene anche la Cassazione mi abbia dato torto. Secondo me sia sulla franchigia a Guido Bertolaso sia su questa vicenda della Grandi rischi c’è una ragione di Stato, l’accaduto si spiega solo con quello. Non si poteva permettere che, di fronte a un’opinione pubblica internazionale dove passano da grandi scienziati, fossero poi condannati in Patria. Ai massimi livelli politici non si è voluto riconoscere che la propria classe scientifica potesse subire l’onta della condanna. Eppure, la loro veste di pubblici ufficiali li obbligava, anche se non formalmente costituiti, alla massima prudenza. Solo Bernardo De Bernardinis ha pagato una leggerezza, una colpa che non aveva, tanto che ormai nelle sentenze è divenuta tristemente l’espressione “brindisi enologico” in riferimento al suo bicchiere di vino.

Lei è un cattedratico del concetto di “aquilanitas”.

Amo questa città, mi piace la sua storia e il suo spirito un po’ dispettoso. Anche in Venezuela, quando mi toccavano L’Aquila mi imbestialivo. Con me c’erano i Gallo, i Tomassi, i Genitti: parlavamo di cose cittadine. La zona di Sabana Grande sulla avenida ci vedeva seduti al caffè come fossimo sotto i portici.

Che cos’è, in fin dei conti, questa “aquilanitas”?

È una forza storica, viscerale, è ciò che ha fatto grande L’Aquila. Questa città, diciamocelo, è sempre stata molto pretenziosa, ma anche molto combattiva. La città nel Trecento e nel Quattrocento era fortissima, “quasi libera viveva” dicono gli storici: il Regno di Napoli aveva sempre paura che facesse un po’… la pazza, sia perché era ai confini del regno, sia perché per di qua passava la via degli Abruzzi, eravamo ricchi, di zafferano e di pecore, quello che serviva allora. La transumanza fu un fatto grande per la città e lo storico Alessandro Clementi ne era un appassionato, è giusto levare un pensiero a lui che ci ha lasciato da poco. Lì si che le “famiglie”  si conoscevano: i Gaglioffi, i Pretatti, i Romani, i Camponeschi che erano come gli Agnelli di oggi, una dinastia di statura rinascimentale.

Oggi che cosa rimane di tutto questo?

Oggi è insidiatissima. Ma ho fiducia che rinasca, naturalmente ci vogliono anni. Quando ci fu il terremoto nel 2009 dissi che sarebbero serviti almeno 30 anni, ne sono passati appena 9. L’ultimo terremoto c’era stato nel 1703, ebbene allora la facciata ricostruita delle Anime Sante fu inaugurata a fine secolo! Ora come allora ci vuole lungo tempo, ma l’aquilano non demorde e riporterà questa città agli onori. I miei colleghi più giovani spesso mi dicono che è finita, ma non sono d’accordo: questa città è morta più di una volta, ha avuto almeno quattro terremoti terribili. Sugli ingranaggi della ricostruzione, l’aquilanitas getterà dentro adrenalina, forza, veleno e cattiveria. Così è.

E Sant’Agnese le piace? C’è chi la contesta.

Molto, è un esempio di aquilanitas pura. Anche contestarla è aquilanitas, lo è dire di no, non mi sta bene. A noi aquilani non sta mai bene niente. Siamo sempre contro tutto e tutti. Ce la porteremo appresso come un marchio di fabbrica, e guai a chi ce la tocca.

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