PESCARA Interno. Sala cinematografica. Sera. Arrivati con largo anticipo rispetto all’orario d’ingresso previsto per il pubblico, ci incamminiamo verso le prime file di poltrone perché lì, ad attenderci, troviamo Lorenzo d’Amico De Carvalho, regista italo-portoghese, classe 1981, che nel corso della sua carriera si è occupato di Cinema e di Teatro, lavorando come sceneggiatore, produttore, montatore e collaborando, in qualità di docente, presso la Rome University of Fine Arts (RUFA) e il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma (CSC).
Lo incontriamo in occasione del suo esordio alla regia cinematografica con “Gli anni belli” film che vede tra i protagonisti Maria Grazia Cucinotta, Rosalia Porcaro, Romana Maggiora Vergano, Ninni Bruschetta e prodotto da Bendico (Italia) in collaborazione con Hora Magica (Portogallo), Art&Popcorn (Serbia), Radio Televisão e Rai Cinema.
Lorenzo d’Amico del Carvalho, lei oltre ad essere il regista del film figura anche come montatore, co-produttore e ha scritto la sceneggiatura insieme a sua moglie Anne-Riitta Ciccone. Non si è sentito un po’ sotto pressione nell’affrontare tutti questi ruoli?
Sono tutti ruoli che ricopro ormai regolarmente, sia su progetti miei personali sia in lavori di altri, tanto in Teatro quanto in Cinema. Eccezion fatta come produttore però. Per il momento infatti ho prodotto esclusivamente i miei lavori.
Lei è di origini italo-portoghesi. Per un lavoratore dello spettacolo questo potrebbe essere un aspetto in grado di fornire moltissimi spunti narrativi…
All’anagrafe il mio nome è Lourenco De Almenida Barbosa De Carvalho ma in realtà utilizzo il cognome d’Amico De Carvalho perché in Portogallo è usanza assumere anche il cognome della madre. È un’usanza dovuta al fatto che nei secoli per evitare di avere cognomi multipli, in Portogallo, essendo un Paese di dimensioni molto contenute, si è deciso di far assumere ai propri cittadini anche il cognome della madre e di inserirlo accanto a quello del padre così da usarli entrambi ed evitare di generare confusioni. Nel mio caso, uso il cognome materno, perché di fatto sono nato e cresciuto in Italia, a Roma, nella famiglia di mia madre Caterina. Non ho mai vissuto in Portogallo, patria di mio padre Carlos. Il legame con questa terra l’ho costruito solo una volta cresciuto. Infatti, ho cercato di recuperare questa lontananza anche e soprattutto attraverso la mia professione…
…e non a caso nel 2014 lei realizza il documentario Terra de fraternidade …
Si tratta di un lavoro che prende spunto da un evento di cronaca avvenuto durante un dibattito all’interno del Parlamento portoghese. Il 25 aprile infatti per una pura casualità anche in Portogallo, come in Italia, ricade la festa della liberazione nazionale. In quella giornata del 1974 un gruppo di rivoluzionari diffuse per radio la canzone proibita Grândola Vila Morena in modo da avvertire gli altri compatrioti che di lì a breve sarebbe avvenuto il colpo di Stato che avrebbe poi portato alla caduta del regime d’allora. Nel 2012 un gruppo di uditori, durante una sessione parlamentare, intonarono all’unisono questa canzone per contestare il Primo Ministro. Dopo questo atto seguì una manifestazione che coinvolse oltre un milione di persone (un decimo di tutta la popolazione del Paese). Per questo, nel 2014, in occasione del quarantennale di quella che è passata alla storia come la Rivoluzione dei Garofani, ho scritto e diretto il documentario, Terra de fratenidade appunto, cercando di realizzare un parallelismo tra il lascito di quel momento rivoluzionario e la grave crisi economica che era in atto in quell’anno. È un lavoro partito da una mia necessità di voler approfondire la storia di un Paese che sentivo vicino ma di cui non avevo conoscenze. Sono stato davvero contento quando poi il documentario venne scelto e trasmesso dalla televisione portoghese per gli eventi commemorativi di quella ricorrenza.
Da lì ha continuato a percorrere il sentiero verso la riscoperta delle sue radici con il documentario Rua do Prior 41 presentato al RIFF – Rome Indipendent Film Festival nel 2021…
Il documentario racconta la storia di un signore, Franco Lorenzoni, che ho avuto la fortuna di incontrare mentre facevo delle ricerche. Si trattava di un italiano, militante di Lotta Continua, che si trasferì in Portogallo nel 1974 e occupò un immobile, in Rua do Prior 41, che trasformò poi in un centro di raccolta per rivoluzionari stranieri che raggiungevano il Portogallo per unirsi alla rivoluzione. In questo lavoro ho anche voluto intrecciare il Teatro.
In che modo?
Il documentario unisce uno spettacolo teatrale che realizzai a Lisbona, sempre su questo tema, con i ricordi di Franco. Il luogo dove lui e i suoi compagni si riunivano, oggi non esiste più, così nel documentario, il protagonista torna nei luoghi che ne hanno segnato la storia, raccontando quello che avvenne.
La ricerca e la scoperta delle sue radici portoghesi, le hanno permesso di incontrare Hora Magica, la produzione che ha creduto in lei da quel lavoro nel 2014 fino a questo suo esordio cinematografico con Gli anni belli nel 2021, ma non solo, perché le ha permesso di toccare e approfondire anche il tema della “rivoluzione” che si ritrova in questo suo primo film da regista.
La “ricerca rivoluzionaria” è sicuramente un aspetto che mi sta molto a cuore e mi affascina particolarmente. Si tratta di una mia continua ricerca, un mio tentativo di conciliare una necessità politica di intervenire sul mondo circostante e una necessità poetica di raccontare quest’urgenza. Anche in Teatro infatti oriento le mie scelte su questo tema. Nel 2010 a tal proposito portai in scena un testo di Tony Kushner…
… “A bright room called day” presentato al 53° Festival dei Due Mondi di Spoleto testo del quale lei, oltre ad esserne il produttore, firmò anche la regia…
È un testo, a mio avviso, bellissimo, ambientato nella Germania durante l’ascesa di Adolf Hitler. Ci sono due piani temporali che si incrociano: la Germania hitleriana e quella immediatamente precedente. Quello che mi interessa e che cerco di esaltare sono le vicende personali all’interno dei grandi eventi che hanno segnato la Storia. Ritengo che tutti noi siamo influenzati da quel che ci accade attorno dal punto di vista socio-politico.
Lei si è formato presso il Lycée Chateaubriand, la scuola francese di Roma. Una volta terminato il percorso di studi ha deciso di immergersi subito nel mondo dello spettacolo?
Dopo il liceo, con un’ottima padronanza della lingua e della cultura francesi, ho vissuto per un periodo a Parigi insieme al mio amico e compagno di classe Matteo Cerami. È stata una parentesi molto breve però, perché il clima atmosferico e il contesto culturale, così affasciante ma radicalmente diverso dal mio, mi hanno fatto capire che io in fin dei conti preferisco restare a Roma.
E una volta ritornato nella Capitale?
Mi sono iscritto alla facoltà di Filosofia ma, lo dico in tutta sincerità, l’ho frequentata per finta. Era più che altro una scusa per poter leggere dei libri. Ritengo che, nella mia professione, il famoso “pezzo di carta” sia non sia così fondamentale ed è ironico che lo dica io che, tra le mie occupazioni, insegno. In questo caso però è diverso, perché si tratta di una formazione intesa come trasmissione del sapere che reputo fondamentale e che deve durare per tutta la vita. E poi, lo ammetto, sono sempre stato un gran pigro.
Non si direbbe dal numero di occupazioni che ricopre: regista, sceneggiatore, montatore, insegnante, produttore…
Per l’aspetto della produzione, mi piace fare i conti, ma solo per i lavori personali e che interessano me. Se mi si propone uno stipendio, anche se fisso, per qualcosa che non sento “mio”, per qualcosa che riguarda altri, ecco che lo percepisco come una pesantezza e rinuncio in partenza. Per questo, come dicevo, ho prodotto solo lavori personali.
Lei dunque è allergico al famoso “posto fisso”.
Alla professione sedentaria. Alla professione ripetitiva. Ho bisogno di libertà.
Quindi, dopo la parentesi come studente in Filosofia, che ha deciso?
Dopo aver abbandonato gli studi, ho iniziato la cosiddetta “gavetta”.
Da dove è partito?
Ho iniziato facendo il video assist. Reparto fotografia.
In che consisteva il suo lavoro?
È la figura professionale chiamata a gestire il monitor davanti al quale si metterà il regista per vedere la scena e dirigerla. Quando l’ho fatto io, il video assist doveva faticare tantissimo perché si dovevano maneggiare monitor ingombranti e pesantissimi, oggi le dimensioni e il peso di questi monitor sono notevolmente ridotti e aggiungerei… “per fortuna”!
Come valuta questa esperienza?
È stata davvero molto interessante. Di solito la prassi, per chi vuole fare il suo ingresso nel mondo del Cinema, è quella di essere dirottato o in produzione o in regia in qualità di “assistente”. Ma in questi due ambiti, assistente di produzione o assistente alla regia, non si vive davvero quello che accade e avviene sul set. Mentre come video assist mi trovavo sempre nel fuoco dell’azione. Gli assistenti di solito si occupano dei camion, dei caffè, del contesto intorno alla scena, difficilmente si ha occasione di vivere l’azione scenica e di sapere quello che avviene sul set.
Lavorare come video assist le ha permesso di iniziare ad avvicinarsi anche al montaggio perché, osservando il modo di catturare i dettagli e le inquadrature dei vari registi, ha potuto capire come poi avrebbero costruito il film una volta in possesso di tutto il girato.
Esattamente. Già capisci come verrà composto il mosaico di tutte le inquadrature che si stanno filmando. Da lì poi sono passato a realizzare i backstage per i film.
Mentre prima dipendeva dal Direttore della fotografia e dal Regista, con questa nuova occupazione acquisisce libertà. Una libertà, forse, che in alcuni casi può essere vista anche come invadenza?
Sei uno che dà fastidio, indubbiamente. Un intruso. Però è un lavoro che mi ha insegnato a gestire le persone, a veleggiare all’interno del set avendone poi una visione completa e, in più, mi evitava le sgradevoli “bullizzazioni” e umiliazioni alle quali sono generalmente sottoposti i vari assistenti di set dai loro responsabili di reparto. Abbattevo di colpo la gerarchia e il nonnismo. Infine, per concludere l’analisi, a me piace gestirmi da solo. In Teatro, per esempio, mi è capitato di fare l’assistente alla regia perché lì, contrariamente al Cinema, si ha una certa libertà. Mi si chiede un risultato e poi decido io come gestirmi per raggiungerlo. La libertà in Cinema in quel momento poteva darmela solo il backstage. Mi si chiedeva un prodotto finale e decidevo io come realizzarlo. Andavo sul set e facevo il mio lavoro. In maniera un po’ diversa dagli altri…
Cioè?
Mi piaceva intervistare anche le maestranze. Di solito durante i backstage oltre ad alcuni momenti fissi, tipo il “Ciak!”, si intervistano il regista (che è un po’ l’alfa e l’omega del film), gli attori, le attrici principali, il produttore e pochi altri. A me piaceva dar voce anche agli altri operatori di settore e questo mi dava la possibilità di approfondire la conoscenza narrativa che poi ho sviluppato nei documentari che ho realizzato.
Ma così, in qualità di freelancer, non perdeva la tecnica e l’apprendimento che poteva raggiungere e acquisire al fianco del regista sul set?
No, affatto, perché in questo caso il set lo creavo io. Il backstage non è altro che un film del film o, se vogliamo essere più precisi, è un documentario del film. Come addetto al backstage ecco che diventavo immediatamente regista e autore del mio lavoro. Non c’è miglior occasione per imparare che mettendosi in gioco in prima persona.
Qual è stato il regista che le ha dato la possibilità di realizzare il primo backstage?
Giuliano Montaldo, straordinario.
Da tecnico e operatore che differenza trova tra lo spettacolo dal vivo e il settore dell’audiovisivo?
La prima differenza sono i soldi, in Teatro ce ne sono decisamente meno. La seconda è la quantità di persone che circolano e infine, la terza differenza, è la vicinanza delle persone all’opera.
Può approfondire questo terzo aspetto?
Chiunque lavora in contesti live – che siano Teatro, Musica, Danza, Circo e via di seguito – partecipa di un’adrenalina del momento. Pensiamo per esempio a un tecnico che è chiamato a spostare un oggetto in quinta. Lui sa perfettamente che quel suo gesto porterà a un’azione in scena che avrà un effetto immediato sul pubblico, per cui se esegue male quell’azione ecco che avrà subito un effetto negativo, se la esegue correttamente invece e il pubblico è soddisfatto, ecco che anche lui ne sarà contento. In Teatro ci si sente parte di qualcosa perché si è dal vivo, si ha il pubblico lì, presente, cosa che invece non vale per il Cinema. Chi costruisce un macchinario, o muove degli oggetti, lo fa per qualcosa che verrà visto non si sa dove e non si sa quando. Non ha la stessa partecipazione emotiva per l’opera in cui sta lavorando che ha il tecnico e operatore teatrale. In questo, il Cinema pone una distanza troppo grande con il pubblico.
Dalle sue parole sembrerebbe emergere una sorta di dichiarazione d’amore per il Teatro a discapito del Cinema…
Non sono uno di quei registi “tecnici” e “immaginifici”. Mi intendo poco di fotografia. A me piacciono molto gli esseri umani per cui in Teatro lavoro molto meglio perché la quantità di tempo che si passa a lavorare con l’attore/attrice è il 90% ed è la parte che io preferisco. Tutto il resto viene dopo, per me. Poi del Teatro mi affascina l’aspetto della continua “ricerca della perfezione” perché, per quanto si possa fissare, ogni replica è uno spettacolo nuovo, mai uguale alla replica precedente e differente da quella che successiva. L’audiovisivo invece è il regno del “perfettibile” nel quale si tenta di cercare quella congiunzione più perfetta possibile e la si cristallizza, fissandola per sempre.
Che pensa dei cortometraggi?
Ritengo che siano una buona palestra tecnica, ma nulla più. Non hanno un reale mercato. Ne ho fatti ma pochi, preferendo virare su altro.
Qual è stato il suo primo lavoro da professionista?
Il documentario che diressi nel 2006 dal titolo: Sfogliare un film. Me lo propose Gianni Amelio per una mostra al Museo del Cinema di Torino.
E la prima volta che ha lavorato in Teatro?
Farà piacere sapere ai lettori di Abruzzoweb che fu proprio per il Teatro Stabile d’Abruzzo. Nel 2009 sono stato chiamato come assistente alla regia da Alessandro D’Alatri per lo spettacolo Scene da un matrimonio tratto dall’opera cinematografica di Ingmar Bergman con protagonisti Daniele Pecci e Federica Di Martino.
Il suo rapporto lavorativo con l’Abruzzo ha avuto un lungo percorso. Nel 2009 realizza il documentario dal titolo L’Aquila: cultura rinascente, del quale firma la regia, e nel 2011 torna a Teatro con Ore plangamo de lu siniore tratto dagli scritti di Papa Celestino V adattati dal Professor Francesco Zimei e prodotti dal Teatro Stabile d’Abruzzo. Che ricordi ha di questa regione?
Se seguiamo la cronologia, il mio primo lavoro in Abruzzo è stato proprio il documentario L’Aquila: cultura rinascente, poi mi chiamò D’Alatri facendomi esordire come suo assistente in Teatro. Per il documentario venni contattato da Franco Scaglia, allora direttore di Rai Cinema, dopo che vide il mio documentario dal titolo Sulle tracce del mito – cercando Ulisse ad Itaca prodotto da Bibi Film e vincitore del Premio Finestra per le scuole. Occorreva dare speranza alle persone dopo il terribile sisma che nel 2009 colpì e distrusse L’Aquila, compreso il suo Teatro, e quindi si pensò di realizzare un documentario che valorizzasse la vita culturale del capoluogo abruzzese. Ho avuto modo di approfondire e conoscere una città e una comunità di persone incredibili. Porto questa esperienza tra le più care e profonde della mia vita.
In qualità di assistente alla regia lavora in Teatro, questa volta nella Lirica, anche per Enrico Vanzina in occasione dell’allestimento della Tosca di Giacomo Puccini nel 2018 in occasione del Festival Pucciniano e affianca alla regia Alessandro Rossellini in occasione del suo debutto con il documentario The Rossellinis, candidato nel 2021 ai David di Donatello. Che bilancio trae da queste esperienze?
Mi hanno contattato entrambi per il loro esordio nei due differenti contesti. Enrico non aveva mai curato la regia di un’Opera Lirica, mentre Alessandro nonostante fosse cresciuto in un certo contesto familiare non aveva mai realizzato un prodotto audiovisivo. Evidentemente sono una persona che è in grado di mettersi a disposizione senza sostituirmi a chi detiene il “ruolo”. Riesco a seguire la visione e l’idea di chi mi chiede una mano, senza imporre una mia decisione. Penso che questa mia predisposizione sia una mia bella qualità e che mi aiuti anche nel momento in cui sono chiamato a insegnare.
Se, ripercorrendo la sua carriera, potesse tornare indietro nel tempo, correggerebbe qualcosa?
Sicuramente crescerei con un produttore. Credo che chi esordisce meglio sia colui che ha l’occasione e la fortuna di affiancarsi a un produttore e cresce artisticamente con lui. Ecco, sento che questo mi è mancato.
Ne riesce a trarre una spiegazione?
Credo di non aver mai ritenuto possibile che qualcuno potesse investire dei soldi in una mia idea. Investirli magari una volta pronta e finita sì, però darne l’avvio non mi è mai sembrata un’ipotesi fattibile.
Nel 2015 lei porta in Teatro lo spettacolo La presa del potere di Cosimo de Medici, tratto dalla sceneggiatura di sua nonna, Suso Cecchi d’Amico. Com’è stato lavorare per la prima volta su “un’opera di famiglia” in un ipotetico dialogo postumo con sua nonna, vanto del Cinema italiano nel mondo?
Quello spettacolo arriva dopo un lungo periodo di pausa per me dal Teatro. Adattai per la scena, con l’aiuto dell’attore Marco Messeri, la sceneggiatura cinematografica che mia nonna Suso scrisse insieme a sua figlia, Silvia, mia zia. Si trattava di un’idea primigenia per un film mai fatto e proposto all’epoca dalla Toscana Film Commission. Volevano fare un film progettato e realizzato a Firenze con tutti lavoratori del cast tecnico e artistico di origine esclusivamente toscana. La regia doveva essere affidata a Mario Monicelli ma poi, per una serie di discussioni, alla fine il film non si realizzò. Per mettere in scena il nuovo copione, ottenni il sostegno del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e del Festival Quartieri dell’Arte. Sono rimasto molto contento del lavoro e del dialogo con quest’opera di famiglia tanto che poi nel 2017 ho continuato su questa linea collaborando alla sceneggiatura del film di mia moglie Anne-Riitta Ciccone dal titolo I’m endless like the space e curando in seguito la regia delle sue opere teatrali: La pacchia è finita (2019) e La teca (2020). Purtroppo però è sempre difficile dare un seguito ai lavori teatrali…
Come mai?
Soprattutto per spettacoli come La presa del potere di Cosimo de Medici che ha un cast composto da 18 persone in costume dell’epoca oppure per l’allestimento che curai del Pericle principe di Tiro di William Shakespeare con un altrettanto numero di attori e attrici in costume. Purtroppo un numero così elevato di persone, più il cast tecnico e tutte le varie spese, spaventa le produzioni e i contesti realizzativi si riducono notevolmente. Soprattutto se si lavora sulle proprie forze e non con enti statali. A me però di lavorare con poche persone in progetti ridotti non piace e quindi ecco che sforzi realizzativi di questo genere finiscono per rimanere fermi perché costituiscono un problema.
…e questo “problema” lo ripresenta anche nel suo esordio alla regia cinematografica con Gli anni belli che possiede un cast numerosissimo con Maria Grazia Cucinotta, Rosalia Porcaro, Romana Maggiora Vergano, Ninni Bruschetta…
Vorrei anche citare, senza fare torto a nessuno, Beniamino Marcone e Riccardo Sinibaldi con i quali collaboro da tantissimi anni e ho fondato l’associazione culturale Carpet. Tornando alla sua osservazione, sì, posso dire che è “il problema della vita mia”: mi piace lavorare con molte persone. Di solito, per il loro esordio, i registi e gli sceneggiatori scelgono progetti con pochi interpreti, incentrati unicamente su atmosfere e dialoghi. Anche in questo caso sento di costituire un’eccezione. Per Gli anni belli, mia moglie Anne mi propose un’idea con un’unica location: un campeggio sul mare, in Calabria. Anche in questo caso, la location d’accordo che è una, ma vivono in quel campeggio famiglie intere, diversi personaggi che trascorrono lì le vacanze, ed ecco che il numero di interpreti resta sempre molto alto. L’idea però mi piacque moltissimo e così la realizzammo lo stesso.
Per concludere la nostra intervista, prima che il suo film inizi, lei che nel corso della sua carriera ha avuto modo di sviluppare competenze eterogenee nei diversi settori dello spettacolo, che futuro prevede ora, dopo la Pandemia e con lo spettro di una Guerra mondiale, per il Teatro e il Cinema?
L’evento dal vivo. Per il settore dell’audiovisivo era in atto un processo, da anni, che la Pandemia ha semplicemente accelerato, ovvero della sua fruizione da “collettivo” a “privata”. Questo è dovuto essenzialmente al rapido sviluppo tecnologico perché oggi ognuno di noi può vedere qualsiasi cosa bene anche a casa. La distanza tra quello che potresti vedere al Cinema e quello che potresti vedere a casa non è più così evidente com’era soltanto qualche anno fa. Nello stesso tempo c’è stato uno sviluppo della forma narrativa in serialità. In una società che ha sempre più impegni e meno tempo, c’è bisogno di una narrazione che si sviluppi più orizzontalmente che verticalmente cioè accorciando il tempo delle puntate ma che continui allungando il numero di puntate, per capirci. Questo ha anche un risvolto positivo perché si riesce a mettere e a raccontare cose che prima, in un film, non si riusciva ad inserire. L’insieme di queste due cose fa sì che l’esperienza audiovisiva sia preferibile a casa se non per una ristrettissima tipologia di formati come i film d’autore e quelli con i grandi effetti speciali che al Cinema hanno un effetto più accattivante rispetto alla televisione o su smartphone e tablet. Il Teatro rimarrà così com’è, se non con meno soldi. Per il Cinema invece ciò che può salvaguardare un certo tipo di prodotti in sala è la presenza dal vivo del cast ad accompagnare le proiezioni dei film, tanto che le Major americane lo hanno già capito e si sono mosse da tempo. Anche io con Gli anni belli l’ho sperimentato: quando accompagno il film da solo con mia moglie o insieme ai membri del cast, c’è sempre un vistoso incremento di pubblico e si arriva anche al tutto esaurito. Questo perché ormai occorre creare un “evento” altrimenti quello che si propone al Cinema, tempo pochi mesi, le persone lo potranno trovare anche altrove. L’evento dal vivo aiuterà il Cinema a sopravvivere.
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