L’AQUILA – Una storia tremenda che “Non finisce mai”, come recita il titolo del suo libro, un titolo chiaro e netto per far capire che l’intenzione è quella di non disperdere neanche un passaggio dell’inferno vissuto e neppure un frammento dell’infernale e terribilmente complesso purgatorio in cui si è trovata da subito dopo, in una sorta di percorso al contrario, proprio qui, nel mondo dei cosiddetti vivi.
Giovedì 18 luglio, nella sua città, L’Aquila, alle ore 17:30, al Palazzetto dei Nobili, Sabrina Prioli presenterà quel libro – tra gli ospiti, lo scrittore e attore Moni Ovadia – il secondo della sua esistenza (il primo si intitola “Il viaggio della fenice”, tradotto anche in inglese col titolo “Rise up phoenix”, i cui ricavi vanno in beneficenza a una casa famiglia in Perù che si occupa di accogliere bambine e ragazze senza famiglia ed anche violentate), sulla violenza sessuale e sulle torture che lei ha conosciuto nel 2016, nel ruolo di cooperante sociologa, nel Sudan del Sud per un progetto di pacificazione.
I maledetti responsabili sono stati individuati in alcuni soldati dell’esercito, mentre nel Paese infuriava all’improvviso una guerra civile lampo, con a seguire un iter giudiziario assurdo, senza alcun monitoraggio governativo e dell’Onu, in Corte Marziale in Sudan, a cui è seguita addirittura la distruzione del file di tutto il processo. Una vicenda che ha purtroppo connotati più ampi, tra altre vittime di violenza e di tortura ed un giornalista locale ucciso.
Prioli, la domanda è incredibilmente banale: come mai ha scelto “Non finisce mai” come titolo del suo ultimo libro?
Perché dopo la violenza sessuale subita nel Sud Sudan, ho continuato a subire violenza. Una violenza culturale ed istituzionale. Da sola. Con l’aiuto di pochissime persone e con una quasi cronica assenza di supporto legale ed economico, oltre a quello personale e medico. La dico in modo semplice: dopo la violenza sessuale, noi donne vittime e sopravvissute alla violenza dobbiamo arrangiarci sole.
Nella società che intende difendere le donne dall’assalto degli uomini, del cosiddetto patriarcato, eccetera?
Nella società in cui non finisce mai il giudizio, non finisce mai il pregiudizio. Sono stata definita una donna “che vuole essere protagonista”, “che vuole fare la vittima”, una donna “che sta bene”, alla fine. L’aver saputo reagire, è un paradosso, non mi rende una sopravvissuta ma purtroppo una vittima, ancora e ancora. Il mio reagire, la mia lotta per la giustizia e riparazione ha creato un grande isolamento attorno a me: un muro invisibile. La società civile è stata assente e qui includo anche le stesse associazioni che si battono contro la violenza sulle donne. È come se si volesse continuare a vedere la donna come vittima punto e basta. Donna martire che non si ribella e che può mostrare solamente la sua sofferenza ma non la sua forza di reagire. Una vittima inerme, indifesa che porta i segni dello stigma sociale che la macchia indelebilmente. La non reazione della società civile non solo danneggia le vittime, ma mina anche i valori di giustizia e umanità su cui dovrebbe basarsi una società giusta e solidale. Io mi sento una vittima e una sopravvissuta al tempo stesso. Vittima per la violenza sociale e istituzionale che continuo a subire e sopravvissuta grazie alla mia resilienza, alla mia forza, al mio coraggio e al percorso di guarigione che ho intrapreso ormai dal 2016. Un processo dove mia figlia Barbara, mio marito Ramin ed il resto della mia famiglia mi hanno da sempre accompagnato.
Le hanno privatizzato il dolore, in pratica.
Direi di sì. La violenza sessuale, inoltre, è come un’arma di guerra in uno scenario di guerra con cui si cerca di annientare il “nemico” anche dal punto di vista del tessuto sociale, culturale e psicologico. Si attenta alla società al suo interno. Una donna che viene violentata in determinati contesti, penso ad alcuni paesi del Medio Oriente, dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, viene ripudiata dalla famiglia e dalla propria comunità perché considerata automaticamente colpevole. Se ci riflettiamo, questo accade anche qui in Italia. La violenza sessuale rompe le strutture familiari, causando vergogna, stigma e isolamento per le vittime. Il male che mi hanno fatto, insomma, lo hanno fatto anche alle persone che mi circondano, alla mia famiglia, all’intera società. La violenza sessuale distrugge il tessuto stesso della società, del contesto sociale. La violenza sessuale, del resto, è odio puro.
Lei, da aquilana che ha vissuto il terremoto del 6 aprile 2009, si è trovata, qualche anno dopo, a dover ricostruire se stessa dopo un crollo personale spaventoso.
Sì, ma da isolata, in un percorso totalmente individuale. Come l’ha definita lei, la privatizzazione del dolore. Io, in ogni caso, sono stata più fortunata di altre. Nel carico di orrori che la violenza sessuale porta con sé, ci sono alcol, droga, depressione, suicidi, ma sono riuscita a non farli vincere, nonostante gli incubi, il dolore, i ricordi di quell’episodio. Che è stato il mio terremoto. Noi aquilani consideriamo il 2009 l’anno spartiacque delle nostre esistenze, esiste la vita prima e dopo il terremoto del 6 aprile. A me è toccato anche il 2016, una tragedia ancora più grande. La mia vita, quindi, ha un prima e un dopo il 2016.
La fiducia nel prossimo, nel mondo?
Ammetto che prima ne avevo di più, anche grazie al lavoro che facevo, ossia monitoraggio e valutazione dei progetti. Ho lavorato anche con ex bambini soldato, parliamo di contesti difficilissimi, terribili, ma in cui lo spiraglio si può trovare in qualche modo. Mettiamola così: la fiducia non è crollata completamente, ma è crollata. Eppure, riesce riprendere forma e sostanza quando vado nelle scuole – ma non quelle della mia città, che evidentemente, a parte un caso isolato, non gradiscono la mia presenza, spinte dal rifiuto dei genitori preoccupati dei turbamenti a cui sarebbero andati incontro i loro figli – a parlare di quanto mi è accaduto, vedo una realtà completamente diversa rispetto a quello che leggo sui social. Rimango sbalordita quando vado a parlare nelle scuole, ragazzi e ragazze fanno domande, intervengono in maniera intelligente, si confrontano liberamente. La realtà, quindi, è diversa da quella che emerge dai social. Questo mi dà speranza. Mi dà molta speranza. E quel crollo mi sembra meno evidente, meno pesante, ma c’è bisogno di creare una comunicazione diversa: per me il faccia a faccia è la speranza più grande. Servono le piazze vere. È lì che si può distruggere l’odio, che altro non è che il motore di tanti orrori, compresa la violenza sessuale. E famiglia e scuola possono e devono svolgere ruoli fondamentali. Purtroppo, la piazza vera non c’è più. Sempre più giovani stanno da soli anche quando stanno insieme, con i cellulari a fare da padrone. Spetta a noi spezzare la catena della solitudine, spetta a noi trovare il ritrovo, il cortile, i vecchi portici non solo in una realtà provinciale come la nostra, per far uscire le “tossine”, riconoscerle, dialogarci. Davanti ad uno schermo, tutto questo è semplicemente impossibile.
È rimasta stupita dal fatto che l’assenza di solidarietà nei suoi confronti sia stata dimostrata anche da parte delle donne e dei centri antiviolenza?
Sì. E non riesco a capacitarmene, anche se, è bene ricordarlo, è un problema che riguarda tutti. Purtroppo, però, mi è mancato l’aiuto delle associazioni che aiutano le donne vittime di violenza. Forse, come ho già detto, aver dimostrato di essere forte in mezzo ad un inferno perfino burocratico e legale, mi ha reso meno vittima di altre donne. A livello legale, dopo tanti tentativi andati a vuoto, sono stata appoggiata da una organizzazione di nome SAHR (Strategic Advocacy for Human Rights) di donne straniere, gratuitamente, ma, alla fine, non so perché, solamente da loro. Come se io non avessi cicatrici, segni indelebili, una distruzione interiore che mi porterò per tutta la vita.
Il suo caso, in Italia, è stato sostanzialmente ignorato. Pochissimi sono infatti gli esempi mediatici che parlano di lei.
È così. All’estero, invece, lo spazio l’ho avuto eccome. Mi sono esposta in prima persona, ho raccontato la mia storia centinaia di volte per attirare l’attenzione mediatica e per quindi smuovere l’opinione pubblica. Qui in Italia l’attenzione è arrivata molto tardi e non ha tuttavia suscitato la risposta delle associazioni che difendono le donne vittime di violenza. Ed è qualcosa che mi fa ancora più male.
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- “IO, VITTIMA DI VIOLENZA SESSUALE IN SUD SUDAN”. COOPERATRICE AQUILANA, “IN ITALIA NESSUN AIUTO”L’AQUILA - Una storia tremenda che “Non finisce mai”, come recita il titolo del suo libro, un titolo chiaro e netto per far capire che l’inten...