L’AQUILA CAPITALE CULTURA: IL MONITO DEL PROF TRIMARCHI, “NO A EVENTIFICIO, MA FERMENTO COSMOPOLITA”

EX PRESIDENTE TSA E ORA DOCENTE A VENEZIA E ALTO CONSULENTE: "L'UTILIZZO DELLE RISORSE DEVE ESSERE CONCENTRATO SULLA CREAZIONE DI INFRASTRUTTURE, PER SPAZI, ATTREZZATURE E TECNOLOGIE DA FRUIRE GRATUITAMENTE O A COSTI ACCESSIBILI, PER LA  FORMAZIONE E LA CRESCITA PROFESSIONALE DEL CAPITALE UMANO NEL TERRITORIO"​. "MOLTE CITTA' D'ARTE SONO COME FRIGORIFERI, VIVONO PRIGIONIERE DEL PASSATO, DIVORATE DAL TURISMO DI MASSA" 

di Filippo Tronca

15 Giugno 2025 08:39

L'Aquila - AbruzzoWeb Turismo, Cultura

L’AQUILA – “Una città culturale non è quella che organizza tanti eventi, un eventificio che si accende e si spegne come un interruttore, sciupando molte più risorse di quelle che può generare. È una città dove si respira cultura quotidianamente, che investe nell’estrarre talenti e fermenti dal territorio, capace di farli coagulare, naturalmente attraente per altri talenti, da tutto il mondo, che trovano in essa ascolto, opportunità e terreno fertile”.

Una visione cosmopolita e controcorrente rispetto all’industria culturale che va per la maggiore in Italia e non solo, quella illustrata dal docente o Economia e Cultura all’Università Iuav di Venezia, Michele Trimarchi, 68enne messinese, che per un breve periodo, da inizio 2008 a fine 2009, è stato anche presidente del Teatro Stabile d’Abruzzo, affiancato al direttore Alessandro Gassmann.

Ora L’Aquila si prepara a diventare nel 2026 Capitale italiana della cultura e avrà a disposizione, per un programma che si annuncia scintillante, ben 15 milioni di euro, e già si è accesa la polemica politica, preventiva, su come saranno usati tutti questi soldi e sul rispetto o meno di un dossier che coinvolge tra le altre cose in modo significativo anche il territorio di area vasta.

Trimarchi però mette subito le mani avanti, “non ho letto il dossier, non conosco i progetti in cantiere”, ma, questo sì, ad Abruzzoweb ha illustrato concetti e principi generali sul tema del rapporto tra città e cultura, al fine di dare un contributo ad una città e una regione che sono rimaste nel suo cuore, forte di un curriculum senz’altro autorevole, avendo insegnato prima che allo Iuav, Economia della Cultura nell’Università di Bologna, Economia e Politica dei Beni Culturali alla Tuscia a Viterbo e ancora presso le Università di Messina, Firenze e Milano. È stato anche consulente per la gestione e le strategie del parco Archeologico di Pompei, della reggia di Caserta, di Villa Adriana a di Tivoli, solo per citarne alcune delle sue collaborazioni.

Afferma dunque Trimarchi: “auguro all’Aquila di far tesoro di questa opportunità, di rafforzare il senso di appartenenza dei suoi cittadini, facendoli essere orgogliosi di essere cosmopoliti in una città che diventa un punto di riferimento nodale di tante culture europee. E quindi alla fine, diciamo il primo gennaio dell’anno successivo, immagino di vedere gli aquilani molto più contenti nel capire quanto la città possa generare valore sociale ed economico, dalla cultura”.





C’è però una condizione: per Trimarchi una città culturale è quella che “crea un movimento centripeto di alleanze e sinergie, di complicità tra persone e gruppi che la creano, che la elaborano, che fanno musica, teatro, poesia e letteratura, spettacolo, arte visiva, digitale, cultura in tutte le forme, insomma. Grave errore il voler imporre dall’alto una ‘politica culturale’, l’azione pubblica, nell’utilizzo delle risorse, dovrebbe essere concentrata sulla creazione, in un’ottica di lungo termine di  infrastrutture, di spazi, attrezzature e tecnologie da fruire gratuitamente o a costi accessibili, favorire la  formazione e la crescita professionale del capitale umano, a cominciare da quello del territorio, come pure favorire l’accesso al credito e al mercato”.

Per Trimarchi, infatti “il talento artistico deve nascere dal basso, e crescere liberamente. Irreggimentarla significa farla diventare una piccola industrietta che produce delle cose che non lasciano un segno, di corto respiro”.

Spunti interessanti di riflessione anche per quel che riguarda tutte le città d’arte italiane, L’Aquila compresa, con un importante patrimonio storico e culturale.

“Un pericolo da evitare è quello di una città che conserva e che non mette in moto meccanismi. Io dico sempre che l’Italia è come un grande frigorifero senza cucina. Noi conserviamo tutto, e questo per carità è giusto farlo, ma se non cuciniamo gli ingredienti alla fine essi deperiscono”.

E il pensiero va a città prigioniere del loro passato e anche per questo ora divorate dall’overtourism, come Venezia e Firenze. In prospettiva anche un rischio per L’Aquila.

“I centri storici hanno i loro templi, come dicono gli apostoli della cultura, i musei, i teatri, i palazzi e le cattedrali. E tutto va bene, sono tutti quanti contenti, appagati, la borghesia si autocertifica come appartenente al club della cultura e quindi non c’è nessun motivo per diventare creativi, non c’è da reagire a nulla. Quando invece la vetta della cultura è stata raggiunta nei secoli in contesti di conflitto, di dialettica. Questo accade a Venezia, anche a Firenze, realtà che conosco più a fondo, ma accade dappertutto, appagate del loro glorioso passato, lontano nei secoli, quando però a ben vedere, erano città in cui  si inventava, si creavano capolavori, si inciampava nell’arte, e tutti la respiravano quotidianamente. Le città d’arte attuali sono città polarizzate in cui ci sono tot musei presi d’assalto dal turismo di massa, che congestiona la città, a danno dei cittadini residenti, con la ricchezza che poi si concentra in poche mani”.

Altro concetto fecondo di spunti di riflessione per una pianificazione nello stesso tempo urbanistica e di politica culturale e sociale, Trimarchi la prende a prestito dall’architetto inglese Cedric Price che nel 1982 propose la celebre metafora del “the city as an egg”, schematizzando l’evoluzione della forma urbana nei secoli.





“Price prese un foglio di carta e disegnò un uovo sodo, la città antica, con le mura, che è il guscio dell’uovo. Poi un uovo fritto, la città del capitalismo, con un centro ancora compatto, con i centri del potere, e una periferia, l’albume che si espande, dove abitano le classi lavoratrici, e più povere.  E poi ha disegnato un uovo strapazzato, per lui la città del futuro, dove parti di tuorlo e albume si mescolano, senza più centro e una periferia definita, ma una città policentrica, fatta da tante zone, nessuna delle quali è superiore alle altre”.

Una città insomma, fuor di metafora, per Trimarchi, in cui “la creatività, l’arte si può annidare dovunque, che spezza la polarizzazione tra centro e periferia, che elimina i ghetti e i dormitori, che diventano luoghi vivibili e dove si può fare cultura, come avviene del resto già in tante città europee e del mondo”

Ultima domanda, “è possibile fare cultura alta, trainante e d’avanguardia in provincia, nei piccoli paesi?”

“Il piccolo centro può essere la matrice più importante della creatività, perché essendo un posto piccolo e anche destrutturato, ha ritmi lenti e tempi morti, dunque offre spazio per l’introspezione e la contemplazione, può rendere in qualche modo più curiosi e creativi, più che in una città, dove le distrazione e le comodità sono più intense. Ad una condizione però, il piccolo centro non deve isolarsi, deve creare continuamente relazioni con altri luoghi, vicini e lontani. L’errore che fanno molti piccoli centri è competere tra di loro. Azione miope, dannosa e fonte di spreco di energie e opportunità”, la risposta di Trimarchi.

 

 

 

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