L’AQUILA – Lo storiografo francese Marc Bloch sosteneva che la storia serve ad analizzare “il passato in funzione del presente e il presente in funzione del passato”. È solo analizzando gli avvenimenti del nostro passato, infatti, che possiamo capire il mondo in cui viviamo oggi e, traendo spunto da ciò che è stato, evitare che si verifichino ancora periodi bui ed episodi drammatici.
Da questo concetto prende spunto lo spettacolo “Processo per i 9 martiri”, presentato dal Teatro Stabile d’Abruzzo, in collaborazione con Spazio rimediato e Progetto Mantidi, che ha debuttato ieri sera al Ridotto del Teatro Comunale nell’ambito della manifestazione “I Cantieri dell’immaginario”.
“Siamo qui al fine di dibattere quella che è, a tutti gli effetti, una ferita ancora aperta nei sentimenti e nella memoria della città dell’Aquila e di tutta la nazione”.
Un giudice, interpretato da Giuseppe Tomei, che firma anche il testo e la regia insieme a Roberto Ianni, dichiara da subito l’intento della rappresentazione, liberamente tratta dall’omonimo libro del professor Walter Cavalieri.
Partendo dalle deposizioni dei testimoni e attingendo ad una documentazione rigorosa, nell’aula del tribunale vengono esaminati gli esiti dell’indagine giudiziaria iniziata due anni dopo la vicenda, avvenuta nel settembre 1943, e conclusasi nel 1952.
Il fatto è tristemente noto: il 22 settembre 1943 un gruppo di aquilani, di età compresa tra i 17 e i 21 anni, tenta di sottrarsi alla chiamata alle armi giunta dal Platzkommandantur, il comando tedesco che si era insediato nella città dell’Aquila dopo la liberazione di Mussolini sul Gran Sasso. I giovani decisero di scappare dirigendosi sulle montagne di Collebrincioni, per poi svalicare sul versante teramano e unirsi alle truppe partigiane. Furono, però, scoperti dai tedeschi, probabilmente per una delazione, catturati e fucilati. La notizia della morte dei ragazzi venne tenuta nascosta, e i loro corpi ritrovati solo dopo la liberazione della città.
Il modo in cui le truppe germaniche scoprirono i ragazzi – il fragore di una bomba esplosa forse per gioco, forse solo per “voler provare le armi”, o forse per un tradimento – è il punto di partenza del racconto-processo. Il fulcro della messa in scena, però, sono le idee, le emozioni, le speranze, i progetti, le paure dei nove giovani che la storia ha reso martiri: loro non volevano essere martiri, non volevano essere eroi. Loro fuggivano per non essere oppressi, per amore della libertà.
“Io sono Bruno D’Inzillo. Io sono Anteo Alleva. Io sono Pio Bartolini. Io sono Francesco Colaiuda. Io sono Bernardino Di Mario. Io sono Carmine Mancini. Io sono Fernando Della Torre. Io sono Giorgio Scimia”.
Ad ogni nome corrisponde un personaggio, che entra in scena anticipato dal ticchettio di un orologio e si presenta al pubblico con poche battute, una breve carta d’identità. Ognuno di loro descrive il modo in cui familiari hanno riconosciuto il corpo, sfigurato dalla violenza e dal tempo: chi è stato identificato per un paio di scarpe, chi per una cintura, chi per un anello d’argento, chi per un maglione prestato. Poi un tocco di martello del giudice risuona nel silenzio della sala, e si torna al processo.
Non c’è una vera e propria risoluzione nell’udienza, nessuno viene accusato per la cattura e la morte dei Nove Martiri aquilani, anche se è evidente che qualcuno abbia fatto una soffiata ai fascisti. Lo scopo della rappresentazione non è trovare un colpevole, ma ricordare, non far dimenticare quello che è accaduto e che ha segnato una pagina terribile del secolo scorso.
Perché, come dice nello spettacolo la madre di uno dei giovani: “la storia tende a ripetersi. Ma la trama della storia dipende anche dalle nostre scelte”.
Lo spettacolo è previsto in doppia replica anche stasera, 14 luglio, ore 18,00 e ore 21,00 al Ridotto del Teatro Comunale.
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