NELL'OPERA DI SATURNINO GATTI, PESTA LE VESTI PAPALI E MANCA UN CHIODO; I TANTI MISTERI DELLA BASILICA DEVONO ESSERE VALORIZZATI DAL TURISMO

L’ULTIMA GEMMA DI COLLEMAGGIO: L’AFFRESCO ”NASCOSTO” DI CELESTINO E I SUOI SEGRETI

di Alberto Orsini

7 Gennaio 2018 09:30

L'Aquila - Video

L’AQUILA – Un affresco ritrovato di Saturnino Gatti, dai significati misteriosi e perfino rivoluzionari, con un Celestino V che, nientemeno, calpesta le vesti papali che storicamente abbandonò, tra chiodi mancanti, legno sanguinante e chissà quanti altri messaggi nascosti.

È solo l’ultimo dei tesori, ben noto agli studiosi e agli esperti, ma sconosciuto a gran parte della gente, restituito appieno dal restauro post-terremoto 2009 della Basilica di Santa di Collemaggio dell’Aquila.

Un’opera che, oltre a trovarsi dietro l’altare maggiore, zona quindi già di norma interdetta ai fedeli, nel pre-sisma aveva anche l’ulteriore ostacolo di essere sormontato dai banchi per il coro in legno di epoca settecentesca che lo coprivano praticamente del tutto.

Per vederlo, come spiega ad AbruzzoWeb il giornalista e scrittore aquilano Angelo De Nicola, esperto di cose collemaggesche e celestiniane, “bisognava sapere la strada e fare come Indiana Jones, passando dietro il coro e sgattaiolando fino all’abside”.

Tanto che, svela, “era misconosciuto, anche alcune importanti guide non lo segnalano. Forse perché nel Settecento gli venne piazzato sopra il coro, che di certo era motore fondamentale quando c’era un’importante presenza monastica qui e nell’abbazia, comunque sia certamente lo conoscevano in pochi – prosegue – Oggi emerge in una posizione cardine e strategica della chiesa”.





Sicuramente una delle tappe da visitare, avendone la possibilità, del tour della “nuova” Collemaggio, tornata all’antico splendore grazie all’investimento di 12 milioni di euro dell’Eni e ai lavori della ditta torinese Arcas Spa.

Una Basilica piena di punti interessantissimi da visitare, che portano a scoperte arcane: un agnello rovesciato sull’architrave di una porta laterale sul fianco opposto alla Porta Santa, uno gnomo, sì uno gnomo, nascosto tra i fregi del portone principale, una mezzaluna rovesciata e una torre, che con molta fantasia potrebbe diventare anche un’astronave, nascoste nel pavimento.

Chicche e aspetti ancora oggi almeno in parte inspiegabili, raccontati dagli studiosi nei libri che hanno provato a decifrarli, ma che, qualunque sia il loro reale significato, ora attendono di essere valorizzati appieno dal “sistema L’Aquila”, tra Curia, istituzioni ed enti culturali, magari con l’aiuto di cittadini volenterosi, per far sì che la “ricostruzione” sia sociale, culturale e turistica, oltre che edilizia.

Tornando all’affresco, per De Nicola è in sintesi “un vero e proprio ‘codice’, che riassume le grandi questioni celestiniane”.

“Sulla destra c’è Celestino, stranamente in un saio marrone, quello dei benedettini, mentre lui ne fondò uno proprio con il saio bianco. Ha l’immancabile Codice Celestiniano nella mano sinistra, oggetto da cui non si separava mai, e l’aureola della santità, anche se ancora vivo – racconta – Tra l’altro, fu santificato solo 21 anni dopo la morte, per l’epoca un record, ma con il nome San Pietro eremita”.





Il pontefice istitutore del primo Giubileo della storia viene anche ritratto con “la tiara, che sta per far cadere, e soprattutto le lussuose vesti papali sotto piedi, così come sotto i piedi la figura di sinistra, San Michele Arcangelo, ha il dragone, simbolo del male, che viene ucciso con la lancia. C’è un evidente parallelismo tra il male e le vesti papali, un messaggio evidente”.

Anche la croce presenta elementi di grande interesse. “C’è un patibolo vuoto: ai piedi del Cristo, un chiodo enorme e sproporzionato. Saturnino Gatti conosceva bene le proporzioni, perché è così e perché sanguina in legno? – le domande – A sinistra c’è un altro chiodo enorme, a destra, invece, non c’è. A guardarlo da vicino, sembrerebbe come se fosse stato cancellato da mano esperta, che ha riprodotto la croce e tolto il gocciolare”.

Questa mancanza, sostiene l’esperto, “sembra rilanciare la leggenda del ‘chiodo assassino’, un grande chiodo da cantiere, di tipo cosiddetto bresciano, che per anni sarebbe stato presente nel reliquiario di Collemaggio. Nel Seicento – continua – l’abate Lelio Marini scrisse che Celestino era stato ucciso dagli sgherri di Bonifacio VIII, suo successore, piantandogli un chiodo in testa, come si faceva con gli eretici templari”.

Un’accusa gravissima, tanto che “sul presunto papicidio sono stati fatti molti studi e il cranio di Celestino presenta un foro significativo che sembrerebbe corrispondere alla parte inferiore dei chiodi bresciani. In epoca moderna, comunque – continua De Nicola – sono state svolte svariate indagini in cui viene escluso che si tratti di un foro ante mortem, quindi provocato in vita. Tutte lo hanno escluso, fino all’ultima di qualche anno fa”.

“Questi dubbi alimentano una delle leggende fondamentali che pongono in evidenza il messaggio celestiniano di pace, di perdono, di un Papa che rifiuta di benedire gli eserciti, basta leggere L’avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone – conclude – E a fine 1294, grazie alla ‘ricetta’ di Celestino, in un centinaio d’anni L’Aquila, città neonata, arrivò a 40 mila abitanti, una metropoli per l’epoca, con i grandi commerci della lana e dello zafferano”.

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