“METTERO’ SASSI IN TASCA PER NON VOLARE VIA”. REMO RAPINO, I ‘COCCIAMATTE’ E IL DESTINO DEI PAESI

INTERVISTA ALLO SCRITTORE DI LANCIANO VINCITORE DEL PREMIO CAMPIELLO CON 'VITA, MORTE E MIRACOLI DI BONFIGLIO LIBORIO'. "ESSERE FAMOSI NON CONTA NULLA, LA SOLITUDINE DELLA PANDEMIA CI HA INSEGNATO CHE L'IMPORTANTE SONO GLI ALTRI"

di Filippo Tronca

3 Agosto 2021 08:50

L'Aquila - Abruzzo, AbruzzoWeb Turismo, Cultura

SAN BENEDETTO IN PERILLIS – Remo si chiama anche il vecchietto che gestisce il piccolo alimentari con tutto un po’. La sua lentezza converte i frettolosi. Taglia il pane con mano tremolante, e come una tovaglia di lino su un altare, ci stende sopra il prosciutto, che in una gourmetteria metropolitana sarebbe venduto a peso d’oro, e condito con la retorica della tipicità e delle cose semplici. Al cliente che chiede le sigarette Remo gli dice “se non te le compri, che fanno male, di panini te ce ne escono altri due, senti a me”.

Ma domenica scorsa, a San Benedetto in Perillis, minuscolo paese all’estremo lembo dell’Abruzzo aquilano che si affaccia sulla valle peligna e alla Maiella, il protagonista è stato un altro Remo.

Remo Rapino, scrittore, nato 69 anni fa a Casalanguida, in provincia di Chieti, ex professore di filosofia, residente a Lanciano, che ha raccontato in un gremito giardino comunale, con la stessa confidenzialità ed empatia in esercizio in un bar tra amici, genesi, senso e sviluppi del suo capolavoro: “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio”, monologo in forma di  romanzo, trionfatore al prestigioso premio Campiello l’anno passato.

La storia di un ‘cocciamatte’, Liborio, appunto, “tra Don Chisciotte della Mancia e Forrest Gump”. Uno di quelli, come canta Fabrizio De Andrè, che ha un mondo nel cuore e non riesce ad esprimerlo con le parole, mentre “la luce del giorno si divide la piazza, tra un villaggio che ride e te, lo scemo che passa”.

Liborio che metteva i sassi nelle tasche del cappotto per non volare via, che ha attraversato la grande storia, dal fascismo ai giorni nostri, superando indenne la guerra, la resistenza, l’emigrazione, il boom e la crisi economica, gli anni di piombo, l’ascesa di Berlusconi, la caduta delle Torri Gemelle. Scrivendo al margine dei grandi eventi, la sua personale, di storia, minore e non da manuale: la scuola, l’apprendistato in una barberia,  l’amore per la signorina Giordani Teresa, il servizio militare, l’emigrazione, le case chiuse, il lavoro in fabbrica su al Nord, a produrre marmellate e poi bulloni, il sindacato, la galera, il manicomio, il ritorno in paese, gli sguardi ostili e schifati, la solitudine della vecchiaia.

L’occasione dell’incontro con Abruzzoweb, l’ha offerta il dibattito del festival Libri nell’Entroterra, organizzato in primis da Paolo Fiorucci, meglio conosciuto come il “libraio di notte”, in virtù della sua libreria aperta solo sul far del tramonto, nella vicina Popoli.

“Liborio scrive come parla – spiega innanzitutto Rapino al cronista  – e scrive lentamente, perché si è convinto che finito il suo lungo racconto, sarebbe arrivata la morte a portarselo via. Il libro, ma l’ho scoperto alla fine, parla in fondo d’amore, nel senso di accoglienza e accettazione dell’altro. Parla di porte aperte, non di muri che si alzano. Nella consapevolezza che la storia non la fanno solo i grandi personaggi, ma milioni e milioni di uomini che sono al margine, che vengono dimenticati. In questo caso la storia di un ‘cocciamatte’, con in testa ‘tutta nà matassa sgarbugliata’, appunto, contraddistinto da neuro-diversità, spinto ad esistere e resistere, nonostante tutto”.

A proposito di esistenza ai margini: San Benedetto in Perillis è uno di quei paesi dell’entroterra abruzzese che inesorabilmente si spopolano. Cento residenti, ma gli abitanti per tutto l’anno sono meno della metà. Vien dunque da pensare che anche i ‘cocciamatte’ – ogni paese che si rispetti ne ha almeno uno – rischiano la disoccupazione, se nel loro paese non resterà più nessuno, e poco senso avrebbe esercitare la professione di scemo del villaggio, senza appunto un villaggio.





“In effetti – riflette Rapino – è una considerazione non peregrina. Non a caso sto lavorando ad un progetto che parla di un paese dove resta a vivere una sola persona. E’ stato osservato che gli scrittori del Sud parlano molto spesso di matti. Io credo che lo fanno perché li riconoscono subito, è un fatto di particolare sensibilità. La follia, va però detto, può mettere in discussione le nostre presunte certezze. E anche i paesi in fondo muoiono di diversità, muoiono lentamente. Sono pietre che rotolano, che si sfarinano. Un personaggio come Liborio, anche per questo, credo che debba essere portato a raccontarsi soprattutto in queste piccole realtà, dove è più utile. No, Liborio non è fatto per le distrazioni della grande città”.

Risate divertite tra il pubblico, a questo proposito, quando Rapino ha raccontato vari aneddoti della sua trasferta a Venezia, a ritirare il premio Campiello: il fastidio e l’imbarazzo per il dress code obbligatorio, ad eccezione che per il cantautore Francesco Guccini, che si era presentato in ciabatte. E ancora il sindaco bianco vestito, che “pareva un gelataio”. La più grande emozione provata non nella serata di gala, davanti alla paranza di massime autorità politiche, religiose e intellettuali, ma al bar dell’albergo, con l’applauso sincero dei camerieri che lo avevano visto tornare con la statuetta in mano a tarda notte. E poi l’elevazione all’empireo della celebrità, anche nella sua città, Lanciano, dove rivela, è nata pure la piadina Liborio. “Salsiccia di fegato e cime di rape, ci ho messo due giorni a digerirla…”, confida. E ancora, la domanda della giornalista di rango nazionale, subito dopo la consegna del premio: “E’ emozionato?”. E sua la risposta secca, “Sì  è ovvio, ma non come quando il Lanciano è andato in serie B”.

“E qui a San Benedetto in Perillis si è emozionato?”, la scontata e scopiazzata ulteriore domanda del cronista locale.

“Ho incrociato continuamente lo sguardo del pubblico, ho goduto dei loro sorrisi – risponde lo scrittore -, ho respirato la sincerità e la semplicità. Sì, sono davvero rimasto molto emozionato. Anche perché in questo paese non c’ero ancora stato, così minuscolo, con le sue case vicine vicine, i vicoletti e gli slarghi. Se non fosse che avrei paura di scantonare, direbbe Liborio, nel percorrere tutte queste curve per arrivarci, potrei pensare anche di prenderci casa. Mi chiedo come sarà in inverno, questo paese. Ecco, i paesi  andrebbero visitati anche l’inverno”.

“Ma poi, dubbio legittimo, ha senso voler salvare un paese a tutti i costi da un destino di spopolamento che pare ineluttabile, non è forse una velleità da “cocciamatte”?”, insinua il cronista.

“Il corso della storia non è mai lineare e scontato – risponde Rapino -. Pier Paolo Pasolini, quando era accusato di essere contro il progresso, rispondeva che lui era contro questo tipo di  progresso, che ha portato, per restare in tema, anche l’immiserimento di vaste zone della montagna e dell’entroterra collinare, ha scatenato la fuga verso  le coste e la città, e l’emigrazione è una ferita che ancora non si rimargina. Ma un progresso buono lo si può realizzare anche in questi paesi, la salvezza è riabitare luoghi che possono offrire una dimensione più umana. Puntando sulla cultura, come questo bel festival dimostra, e occorre un recupero non solo urbanistico, va sostenuta l’agricoltura e l’allevamento. Occorre favorire lo sviluppo turistico”.

Quindi Liborio rischia di diventare uno scemo di un villaggio turistico?

“Ma no, se aiutato dallo Stato, Liborio farebbe il piccolo imprenditore, lo vedo a produrre formaggi e salumi, dedito ai caciocavalli”, risponde con convinzione lo scrittore.

Del resto anche Liborio è paesano dentro e questo pensava della città: “la gente correva correva e quelli che si conoscevano si salutavano con una parlata strana che non ci si capiva niente anche se stavi attento e quello era un problema che se non capisci le parlate un poco strauss è come essere muti e sordi, pure se parli e ci senti”.





Eppure Liborio, la più atroce emarginazione l’ha vissuta una volta tornato in paese, vittima sacrificale delle malelingue, e dal tribalismo amorale, tanto da non andare più a ritirare la pensione di cui viveva, sentendosi sbagliato, di troppo.

Altri i passaggi letti da Rapino del suo libro, in una versione però dialettale, per la gioia del pubblico paesano, diversa dal testo ufficiale, perché spiega: “il dialetto esprime  meglio i sentimenti. ‘Addosolare’ è diverso da ‘ascoltare’. Come si fa a restituire il senso di espressioni come ‘mi sò buscat nà trinciata’, oppure  ‘dù soldarelli’?”.

Questo a seguire, nella sua versione italiana, uno dei brani, verso il finale del libro. A parlare, attraverso la voce di Rapino, è ovviamente Liborio: “Così è tutta la vita nostra, acqua che viene e acqua che va, se poi ridivento polvere come dice il prete sull’altare, però pure quella polvere mia sempre polvere di uomo è, un uomo di carne con tutti i sentimenti, i dolori, i rumori nel cervello, bistanclaque bistanclaque, tata tatan tatatan, tutum tutum tututum, che per questo mi sono scantonato, che poi non sono solo i rumori della fabbrica, ma tutti i ricordi della vita mia interamente, proprio come ci faccio scrivere sulla lapide, dopo che un giorno prima o poi mi morirò”.

“Liborio – spiega  Rapino – è un personaggio inventato che dice cose reali. E’ uno che si porta dentro i suoi sogni. Liborio è andato in galera, e poi in manicomio, perché ha aggredito il suo caporeparto che voleva che lavorasse ancor più velocemente nella catena di montaggio in fabbrica, anche se già produceva 300 di pezzi al giorno, e Liborio non si dava pace, perché non capiva dove li mettevano, i bulloni che ogni giorno realizzava con le sue mani. Inventato, ma c’era un Liborio ‘cocciamatte’ anche a Lanciano. Ho trovato la sua tomba. Ogni tanto gli porto un fiore. In fondo Liborio sono anche io, visto che quando scriviamo parliamo sempre anche di noi stessi. Come del resto, diceva Marcel Proust, ogni lettore, quando legge, legge se stesso”.

Rivela infine che sì, anche lui ha fatto la conoscenza del suo omonimo Remo, nel piccolo alimentari di San Benedetto in Perillis.

“Quello che chiamiamo caso è forse una coincidenza di anime, che il destino fa incontrare. Se ciascuno di noi  riuscisse a essere se stesso, ad essere sincero, la terra sarebbe più gentile. Perché in fondo ci sono poche cose per la quale vale davvero la pena di vivere. Ce lo ha ricordato anche la pandemia. Chiuso in casa, guardavo dal balcone il mio quartiere di Lanciano vuoto, ogni tanto qualcuno metteva la musica, qualcuno cantava. Ma erano canti di disperazione, non era una bella cosa. Ti mancava l’altro, ti mancavano le persone”.

A raggiungere da Bucchianico Remo Rapino, la nipote Luisella, per portargli conserve di pomodoro del suo orto e olio del suo uliveto da far arrivare, con vari passamano, ai parenti in Sardegna. L’intervista deve a questo punto volgere al termine.

“Quello che conta è l’amicizia, è l’amore, il rapporto con gli altri, gli affetti. Non la ricchezza e il successo. Anche se ora sono diventato famoso, io non sono cambiato, sono tale e quale a prima. Rispetto a certi ambienti mi sono anzi auto-emarginato. Come Liborio, forse anche io, un giorno, metterò i sassi nelle tasche del cappotto per non volare via”, si commiata lo scrittore.

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