PATRIZIA TOCCI: ‘AQUILANI COCCIUTI COME PALAZZI CHE NON CADONO’

di Erminio Cavalli

10 Agosto 2012 08:00

L'Aquila - Cultura

L’AQUILA – AbruzzoWeb ha incontrato la scrittrice Patrizia Tocci, autrice del libro La città che voleva volare, pubblicato per Edizioni Tabula Fati, un vero successo editoriale ma anche la sensibile testimonianza di un cuore che batte per un grande, insostituibile amore.

È aquilana?

No. Sono nata in un piccolo paese della Marsica montana, sempre in provincia dell’Aquila: Verrecchie, frazione di Cappadocia, ma vivo all’Aquila da ormai più di 25 anni. Ci sono venuta per lavoro e rimasta… Per amore. Adesso la mia casa in centro storico è chiusa, inagibile e forse verrà abbattuta. “Dimoro” in un piccolo paese a 12 chilometri dal capoluogo.

So che è una grande estimatrice e studiosa della scrittrice Laudomia Bonanni. Come ha influito su di lei ?

Mi ha insegnato a guardare con altri occhi la provincia e soprattutto la nostra città, L’Aquila. È una scrittrice tutta da riscoprire. Sarebbe troppo lungo farlo qui ma mi accingo a pubblicare, forse entro il prossimo inverno, un libro sulla sua opera e in particolare sui personaggi femminili della sua narrativa che sono davvero interessanti.

Non so quanto abbia influito su di me. Il peso degli scrittori che amiamo e a cui torniamo continuamente, il debito nei loro confronti è sempre immenso. Per esempio, grazie a Laudomia Bonanni ho scoperto e ritrovato i gigli dell’Aquila: sono dei gigli di ferro battuto, messi alla fine delle catene che tenevano i muri maestri all’interno dei palazzi aquilani; questi gigli sono ancora visibili, sulle nostre facciate disastrate. Sono andata a cercarli, dopo aver letto un articolo della Bonanni in cui ne parlava: li ho cercati con molta pazienza (non si vedono facilmente a occhio nudo…) ma quando li ho trovati è stato come incontrare degli amici… adesso li ho fotografati e censiti. E spero che ogni casa ricostruita all’Aquila, porti come emblema della rinascita questo giglio.

Ha dei referenti di ispirazione letteraria?





Sono una lettrice onnivora e oltre ai grandi inimitabili maestri di prosa (da Marcel Proust a James Joyce, dai russi agli spagnoli), frequento anche molto la poesia (in particolare Eugenio Montale, uno dei miei preferiti). Ci sono grandi libri e autori che leggo e rileggo, dei quali non mi stanco mai..

Com’è nata l’idea di “Una città che voleva volare”?

Stavo scrivendo un altro libro. ma con il terremoto, ho sentito che dovevo fare qualcosa e raccontare, a modo mio, quell’esperienza. Così ho torto il libro che stavo scrivendo (come ha fatto il terremoto con le nostre case e la nostra anima) e l’ho piegato a raccontare tutta la (mia) città .

Il  libro è diviso in sezioni. Ci spieghi come nascono?

Intra moenia ed extra moenia è la divisione che ancora ha un’eco nelle parole e nella toponomastica della nostra città. Dentro le mura (intra moenia) è la parte più interna, interiore del libro: contiene pezzi scritti anche 20 anni fa; extra moenia è dedicata alla periferia e contiene alcuni luoghi e brani anche legati alla mia infanzia; il terzo “dopo” non ha bisogno di aggettivi, né di ulteriori spiegazioni. Dopo il terremoto… Sono tornata a visitare la città dopo quasi 15 giorni e  l’impressione è raccontata in quelle che qualcuno ha definito ” prose liriche”

La sua scrittura è sicuramente autobiografica. Quanta invenzione letteraria esiste nel suo scrivere?

Non saprei rispondere con certezza a questa domanda, per me ogni cosa è poesia, a cominciare dalla vita: quindi ogni momento merita di diventare “letteratura”.

Cosa rappresenta L’Aquila per lei?

La mia città, la casa dove sono entrata sposa, dove è nata mia figlia, dove ho cominciato a organizzare incontri culturali, dove ho pubblicato il mio primo libro, dove ho dato vita ad associazioni culturali; la città dei miei studenti e quella nella quale ho vissuto più a lungo la mia professione, la città da percorrere tutta a piedi, la bellezza delle piazzette semisconosciute, le occasioni di incontro e di cultura musicale teatrale…





Che senso dà alla tragedia che ha colpito gli aquilani?

Nessun senso. Il terremoto è una prova terribile per ognuno di noi. Ma solo chi l’ha vissuto davvero può capire che significa l’espressione “mi manca la terra sotto i piedi”… non c’è saggezza alcuna nel terremoto, solo una profonda e inspiegabile casualità. Essere scampati a questa forza distruttrice dovrebbe farci considerare la vita in un modo nuovo: una seconda vita che ci è stata data, casualmente e senza meriti rispetto a quelli che invece non ci sono più.

Si accinge a proporre una nuova e interessante pubblicazione? Le va di parlarne?

Sto preparando un libro corale collettivo: 54 brani-testimonianze sulla notte del terremoto. C’è una post-fazione di Paolo Rumiz e inoltre altri testi scritti da me in questi lunghi ed intensi tre anni della mia seconda vita.

Non pensa che la voce corale di un popolo possa dare un ritratto troppo vago e poco definito di una città? Il rischio potrebbe essere quello di non poter controllare quello che lei in fondo non condivide.

No, non si tratta di condividere. Ci sono solo racconti personali e autobiografici che tentano di raccontare un’esperienza che rifiuta le parole, per quanto intensa e destabilizzante. Ma io penso che sia giusto lasciare una testimonianza scritta di come la nostra comunità (L’Aquila e i paesi attorno) ha vissuto questi secondi e le ore successive che hanno cambiato completamente la nostra vita e il nostro destino. Raccontare quello che finora non è stato raccontato… sono intervenuta pochissimo sui testi… e il ricavato verrà completamente devoluto in beneficenza, per le associazioni che si occupano della donazione del sangue.

“Se una notte d’inverno un viaggiatore…” si fermasse a L’Aquila dove lo porterebbe? Solo due o tre luoghi a sua scelta per lasciare un’idea della sua città.
 
D’inverno… una notte… sarebbe difficile portare qualcuno all’Aquila… adesso non potrei portarlo quasi da nessuna parte il tuo viaggiatore, sicuramente davanti alla facciata bianca e rosa di Collemaggio, la basilica celestiniana… Sicuramente a piazza Duomo, la nostra piazza nascosta in mezzo ai palazzi aquilani, ma mi piacerebbe portarlo nelle piazzette, negli slarghi o nei chiassetti, dove ci sono ancora palazzi del ‘500 e del ‘600 che si tengono ancora in piedi, cocciuti come noi.

Ma è tutta zona rossa… Gli farei vedere la nostra città tutta puntellata, fasciata, sorretta. E che spero presto, prestissimo possa tornare alla sua fruibile bellezza. Forse in fondo anch’io, con la mia scrittura, con le iniziative che organizzo per la mia città, contribuisco a mantenerla in piedi, a sorreggerla.

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