L’AQUILA – Le Regioni del Centro e del Sud Italia, Abruzzo compreso, sarebbero condannate, con l’autonomia differenziata, “a diventare clienti della sanità settentrionale”. Si aggraverebbe “il divario delle prestazioni”, si assisterebbe “alla fuga dei medici nelle regioni più ricche”, e a quel “turismo sanitario” dal Sud e dal Centro verso il Nord che negli ultimi dieci anni, ha comportato un travaso di risorse dalle Regioni centro-meridionali verso quelle settentrionali di ben 14 miliardi di euro.
E l’Abruzzo sarebbe tra le regioni che ci rimettono, la cui sanità è ancora in piano di rientro e convalescente, dopo il commissariamento dal 2009 al 2015, con livelli Livelli essenziali di assistenza, i Lea, di terza fascia, al 76,6% di adempimento, ben lontani dall’oltre 90% dell’Emilia Romagna. E con una mobilità passiva, ovvero i cittadini che vanno a curarsi altrove, che dal 2009-al 2019 già registra un saldo negativo di circa 800 milioni.
E’ quanto emerge dal report “Il regionalismo differenziato in Sanità”, elaborato dalla Fondazione Gimbe che chiede al governo di “espungere la sanità dalle richieste di autonomia differenziata”, bocciando senza appello, almeno su questa dirimente competenza, il disegno di legge del ministro per gli Affari regionali, Roberto Calderoli, della Lega, approvata nella riunione dello scorso 2 febbraio dal Consiglio dei ministri.
L’Abruzzo, assieme al Molise, è l’unica regione che non ha nemmeno avviato l’iter, che prevede di stabilire, d’intesa con il governo, l’elenco delle materie che si intende gestire in proprio. E mentre contro il disegno di legge Calderoli si è registrata una levata di scudi delle opposizioni centrosinistra e Movimento 5 stelle regionali, ma anche di sindacati e associazioni di categoria dei comparti sanitari, il presidente della Regione, Marco Marsilio, di Fratelli d’Italia, che si era riservato di esprimere un giudizio solo dopo aver letto il testo del ddl, ha parlato poi di “una norma equilibrata che ha l’obiettivo di far crescere tutta l’Italia”, dicendosi certo che “verranno determinati i livelli essenziali delle prestazioni con conseguente indicazione di fabbisogni e relativi costi”, e che “nel processo di concessione dell’autonomia viene valorizzato il ruolo del Parlamento”.
Non la pensa però così Nino Cartabellotta, presidente della fondazione Gimbe, che nel commentare il report, parla esplicitamente di disegno di legge “eversivo”, che “aumenterà le diseguaglianze regionali, violando il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nel diritto alla tutela della salute”, sottolineando che “alcune forme di autonomia rischiano di sovvertire gli strumenti di governance del Ssn aumentando le diseguaglianze nell’offerta dei servizi: sistema tariffario, di rimborso, sistema di governance delle aziende e degli enti del Servizio Sanitario Regionale, determinazione del numero di borse di studio per specialisti e medici di famiglia”.
A febbraio 2018 sono state Emilia-Romagna, che poi ha fatto un passo indietro, Lombardia e Veneto a sottoscrivere tre differenti accordi preliminari sul regionalismo differenziato con il governo di Paolo Gentiloni, e la norma prevede la possibilità di trasferire numerose competenze ora dello Stato alle Regioni, su loro richiesta, potendo di conseguenza tenersi quota parte delle entrate fiscali, invece di versarle nella “cassa comune”. Ma per non creare una Italia di serie A e una di serie B, l’aspetto cruciale è definire i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), standard minimi che ogni Regione, nell’erogare i servizi pubblici a essa demandati, deve rispettare, per garantire i diritti sociali e civili dei cittadini, a prescindere da dove vivano. Senza Lep, o senza un meccanismo davvero efficace e certo, si rischia la penalizzazione delle regioni meno ricche e popolose, Abruzzo compreso, a causa della “secessione soft” delle regioni più ricche.
Ma nel report di Gimbe si osserva che “nel disegno di legge Calderoli si stabilisce che andranno definiti i Lep, che però restano al momento sono orfani di risorse. E Veneto e Lombardia potranno procedere con l’autonomia prima ancora che le risorse siano stanziate. Peraltro, il finanziamento dei Lep viene genericamente affidato ‘alla legge’, senza alcun riferimento alla Legge di Bilancio annuale”.
Un aspetto non secondario, anche per l’Abruzzo, perché come già ricordato da questa testata, a un cittadino abruzzese per avere le cure di cui ha diritto, servono circa 2000 euro in media, ma il suo contributo non arriva a 200 euro. La copertura della spesa regionale per la sanità, genericamente indicata in 2.700.000.000 di euro, è pressoché totalmente dovuta alla compartecipazione all’Iva, quasi 2 miliardi di euro. E proprio quota parte dell’Iva potrebbe essere trattenuta dalle regioni in autonomia differenziata, e andrà in qualche modo colmata.
Per la sanità le richieste di autonomia riguardano la possibilità di non dover sottostare ai vincoli statali di spesa in materia di personale della sanità, la possibilità di poter stipulare contratti a tempo determinato con i medici di specializzazione lavoro, l’autonomia rispetto alle tariffe, ai rimborsi, alla compartecipazione alla spesa sanitaria degli assistiti della Regione, alla possibilità di non dover sottostare alle regole dello Stato sulla governance delle aziende del sistema sanitario, la possibilità di poter sottoporre all’Aifa, l’agenzia nazionale per i farmaci, proprie valutazioni sull’equivalenza terapeutica dei farmaci. Ma anche una maggiore autonomia legislativa, amministrativa e organizzativa in materia di istituzione e gestione dei fondi sanitari integrativi.
Venendo dunque al report di Gimbe, primo aspetto da considerare sono le prestazioni e i servizi che il sistema sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di compartecipazione (ticket).
Ogni anno il Ministero della Salute valuta l’adempimento delle Regioni nell’erogazione dei Lea, attraverso la famigerata “griglia”, strumento di valutazione costituito da 34 indicatori ripartiti tra attività di prevenzione collettiva e sanità pubblica, assistenza distrettuale e assistenza ospedaliera.
Ebbene, l’Abruzzo ha una percentuale di adempimento del 76,6%, con punteggio 1.724, in terza fascia, ben lontana dalle prestazioni delle regioni come Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto che hanno già sottoscritto tre differenti accordi preliminari sul regionalismo differenziato. E l’Abruzzo come tutte le sanità del Sud, eccetto la Basilicata, dopo il commissariamento dal 2009 al 2015 è ancora in piano di rientro, sotto la tutela governativa.
La richiesta di maggiori autonomie, afferma il presidente Gimbe Nino Cartabellotta, “viene proprio dalle Regioni che fanno registrare le migliori performance nazionali in sanità”. Infatti, dalla fotografia sugli adempimenti al mantenimento dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) relative al decennio 2010-2019 emerge che le tre Regioni che hanno richiesto maggiori autonomie si collocano nei primi 5 posti della classifica: rispettivamente Emilia Romagna, prima, Veneto, terza, e Lombardia, quinta, mentre nelle prime 10 posizioni non c’è nessuna Regione del Sud e solo 2 del Centro, Umbria e Marche”.
C’è poi un altro elemento di debolezza del sistema sanitario regionale, quello della mobilità: i cittadini italiani, va ricordato, hanno il diritto di essere assistiti in strutture sanitarie di Regioni differenti da quella di residenza, un diritto che si traduce nel cosiddetto fenomeno della mobilità
sanitaria interregionale.
Tecnicamente viene distinta in mobilità attiva (una voce di credito della Regione che identifica l’indice di attrazione) e mobilità passiva (una voce di debito che rappresenta l’indice di fuga da una Regione).
Annualmente vengono effettuate compensazioni finanziarie tra Regioni su 7 flussi finanziari: ricoveri ospedalieri e day hospital (differenziati per pubblico e privato accreditato), medicina generale, specialistica ambulatoriale, farmaceutica, cure termali, somministrazione diretta di farmaci, trasporti con ambulanza ed elisoccorso. Circa il 75% delle compensazioni è relativo a prestazioni di ricovero ospedaliero e day hospital.
Dall’analisi della mobilità attiva e passiva di Gimbe, emerge ancora una volta la forte capacità attrattiva delle Regioni del Nord, cui corrisponde quella estremamente limitata delle Regioni del Centro-Sud. Non a caso la Corte dei Conti ha documentato che nel decennio 2010-2019 – corrispondente al riparto del Fondo Sanitario Nazionale per gli anni dal 2012 al 2021 – 13 Regioni, quasi tutte del Centro Sud, risultano essere le meno attrattive per i cittadini e hanno accumulato un saldo negativo pari a 14 miliardi di euro.
E anche qui l’Abruzzo è nel gruppo delle regioni che registrano una significativa la mobilità passiva, per circa 800 milioni di euro.
Ai primi quattro posti per saldo positivo si trovano proprio le tre Regioni che hanno richiesto le maggiori autonomie: Lombardia 6,18 miliardi), Emilia-Romagna (3,35 miliardi),
Toscana 1,34 miliardi), Veneto (1,14 miliardi).
Al contrario, le cinque Regioni con saldi negativi superiori a 1 miliardo sono tutte al Centro-Sud: Campania (- 2,94 miliardi), Calabria (- 2,71 miliardi), Lazio (- 2,19 miliardi), Sicilia (- 2 miliardi) e Puglia (- 1,84 miliardi).
Infine Gimbe lancia l’allarme in particolare sulla richiesta del Veneto di contrattazione integrativa regionale per i dipendenti del Ssn, oltre all’autonomia in materia di gestione del personale e di regolamentazione dell’attività libero-professionale”. Questo per la Fondazione rischia “di concretizzare una concorrenza tra Regioni con migrazione di personale dal Sud al Nord, ponendo una pietra tombale sulla contrattazione collettiva nazionale e sul ruolo dei sindacati”.
Pierino Di Silverio, segretario nazionale di Anaao-Assomed, uno dei sindacati più rappresentativi dei dottori non ha a questo proposito dubbi: “la fuga dei medici al Nord? Non è un rischio, è una certezza. Ogni Regione avrà campo libero per fare ciò che vuole. Sia sugli stipendi dei medici, sia sul numero dei giovani specializzandi da assumere e sui loro compensi. Risultato? Si va verso un sistema sempre più competitivo tra Regioni. E alla mobilità dei pazienti si aggiungerà quella dei sanitari. Finendo per mettere in discussione uno dei pilastri del nostro stato sociale, l’universalità delle cure”.
Conclude nel report Cartabellotta: “Tenendo conto della grave crisi di sostenibilità del Ssn e delle imponenti diseguaglianze regionali la Fondazione Gimbe invita il Governo a mettere da parte posizioni sbrigative e propone in prima istanza di espungere la tutela della salute dalle materie su cui le Regioni possono richiedere maggiori autonomie. In subordine, chiede che l’eventuale attuazione del regionalismo differenziato in sanità venga gestita con estremo equilibrio, colmando innanzitutto il gap strutturale tra Nord e Sud del Paese, modificando i criteri di riparto del Fabbisogno Sanitario Nazionale e aumentando le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni”.
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