“PICCOLI PAESI MUOIONO ANCHE DI MISOGINIA”: RIZZO, “INEVITABILE LA FUGA DEI GIOVANI”

di Filippo Tronca

14 Dicembre 2020 07:44

L'Aquila - Abruzzo, Cultura

L’AQUILA – “Riconoscendo la bellezza e la qualità della vita che può esprimere un borgo, ritengo impossibile tornare ad abitare lontano dalle città fino a quando non si chiariranno certi valori non negoziabili. Chiedere ad una donna, ad un giovane di andare a vivere in un paese che si spopola è una cattiveria. Sono anche io una filantropa dei borghi, ci vivo, li amo, mi metto il costume locale, insomma mi stanno a cuore. Ma so che tra vent’anni non ci saranno più. Io avrò vissuto l’esperienza più formativa della mia vita, posso dire di aver avuto come nonni dei fossili viventi, radicati in un territorio arcaico e duro”.

Parole nette, vissute e in controtendenza, quelle di Anna Rizzo,  41 anni, archeo-antropologa di origini siciliane, che da dieci anni frequenta l’Abruzzo, dedicandosi in particolare al progetto di studio “Fluturnum Archeologia e Antropologia nella Valle del Tasso e nell’Alta Valle del Sagittario”, in collaborazione con l’Università di Bologna, la Soprintendenza e altri partner, localizzata principalmente a Frattura, frazione di Scanno, in provincia dell’Aquila, che come dice il nome vive la cesura geologica, storica e culturale tra il vecchio abitato, distrutto dal sisma del 1915 e il paese nuovo ricostruito a valle durante il fascismo.

Anna Rizzo a Frattura ci ha vissuto per anni, facendosi promotrice di numerose iniziative, tra cui la riscoperta del fagiolo bianco, coltivazione tipica fratturese che ha segnato profondamente il passato e il presente del territorio. Anche grazie al suo impegno negli ultimi anni è crescita la visibilità del paese, tra gli studiosi delle aree interne, architetti, designer di comunità,  genetisti di fama mondiale, e Frattura e il suo fagiolo bianco si sono meritati la ribalta del Salone del Gusto di Slow Food di Torino, l’inserimento del fagiolo bianco nell’Arca del Gusto,  e negli articoli scientifici dei ricercatori di Harward sul turismo sensoriale.

Ma c’è altro oltre al fagiolo bianco. Una zona d’ombra che non riguarda beninteso Frattura, dove Rizzo è stata accolta con calore e rispetto, ma tanti paesini italiani e anche abruzzesi oggetto delle sue ricerche. Una questione irrisolta, più sociale e culturale, piuttosto che economica e infrastrutturale, che fa da moltiplicatore allo spopolamento, e presa forse poco in considerazione: la non vivibilità di un piccolo paese per i giovani, la mancanza di stimoli culturali e di una vita sociale e relazionale appagante e per tutto l’anno, il sentirsi fuori dal mondo, disagio che neanche una buona connessione internet può lenire.

E soprattutto e in particolare il permanere di una cultura maschilista e patriarcale, che trasforma il paese in una gabbia che ha come sbarre l’asfissiante controllo sociale, retaggio di un passato che non vuole finalmente morire.

Nell’articolo “La tradizionale misoginia dei paesi”, che ha provocato un inteso dibattito, Rizzo è arrivata a scrivere: “Vivere in un paese e fare un lavoro intellettuale è uno stillicidio o un suicidio sociale. Il divario culturale è profondo. Soprattutto se sei donna. Una donna che argomenta, che prende la parola o risponde in maniera critica è definita sfrontata. Una professionista che come me che va al bar, si muove da sola, va il ristorante è da vessare e insultare pubblicamente. Denigrandola perché sembra in vacanza e anche loro possono lavorare così. La ferocia verbale e fisica che si vive e che vivono le donne nei paesi è raggelante. Non penso nemmeno che sia un argomento tabù. E’ uno stato di opposizione e di conflitto aperto, che nasce nelle famiglie, viene distillato tra i parenti e rappresentato nelle piazze”.

Parole fuori dal coro dei cantori commossi del bel tempo che fu, nostalgici della civiltà rurale e cultori degli antichi mestieri, lontane da quelle di “paesofili”, che tutti o quasi vivono in città, accorandosi per le case vuote di borghi lontano dal mondo, in cui loro però non andrebbero mai a viverci.

Dialetticamente, dalla sua analisi impietosa e documentata, è possibile rintracciare azioni di rivitalizzazione davvero efficaci, e che sappiano incidere sulle reali e profonde cause dello spopolamento, al pari della mancanza di lavoro, servizi essenziali e collegamenti fisici e informatici. Un fenomeno, quello dello spopolamento, che anche in Abruzzo come più volte evidenziato da Abruzzoweb, può essere definito drammatico: dal 2015 al primo gennaio 2020 i 116 piccoli paesi di montagna, più di un terzo di tutti i comuni abruzzesi hanno perso 6.448 abitanti, passando da 98.435 a 91.947. Una flessione del 6,6%, ben superiore alla media regionale che è del -1,94%. Con tanti paesi terremotati ricostruiti, ma con le case vuote, che non hanno valore di mercato, ed anzi per i proprietari che vivono altrove quell’edificio rappresenta solo un fardello.

Anna Rizzo, prima di tutto, ci può raccontate raccontare la sua esperienza a Frattura?

Il mio primo approccio è stato quello di studiare le lavorazioni in quota di pastori e agricoltori e lo sfruttamento dell’alta e media montagna. La toponomastica, cioè il nome con cui si ricordano i luoghi e una serie di informazioni sedimentate nella lingua, che mi hanno permesso di leggere il territorio attraverso le epoche. Ho lavorato a stretto contatto con i pastori, andando al pascolo e lavorando nelle stalle, vivendo la domesticità del quotidiano. Quando lavoro, evito in tutti i modi di presentarmi come antropologa. Non è importante e crea una distanza. Sono chiara con loro sulle finalità della mia presenza, per il resto mi rendo utile, e lavoro al pari con loro. Questo mi ha permesso di entrare nel loro sguardo, rispettando i loro tempi, e sciogliendo tutti i dubbi sugli obiettivi del mio lavoro. Le culture rurali sono sistemi chiusi e diffidenti. E i tempi di accettazione, possono essere molto lunghi, o non realizzarsi mai. Frattura è un piccolo paese che vive tra due insediamenti, separati da un’enorme frattura, quella che da il nome al paese. Una capsula del tempo, che ti permette di camminare tra i secoli, percorrendo la strada che unisce i paesi, o tornare alle epoche preistoriche se ti fermi sul piede della frana. Un luogo potente, uno scenario suggestivo, uno spazio enorme e accogliente, che ti isola dal resto della valle. Un contesto che vibra di storie e di persone, che durante le stagioni più calde popolano i paesi. Creando una dimensione multitemporale per le diverse attività che si sono conservate e per le nuove modalità di vivere Frattura vecchia.

Di cosa si è occupata nello specifico la sua ricerca?





Nel corso di questi anni, oltre allo studio antropologico, storico, e la ricostruzione dei precedenti insediamenti studiati dagli archeologi, abbiamo intrapreso con la comunità un percorso inedito. Ho spostato l’angolo della ricerca all’ultimo secolo, studiare la trasformazione economica della Valle del Sagittario nel post sisma della Marsica. Da questa esperienza è nato nato un micro festival ”Non sono solo un fagiolo” che va avanti da quattro anni, in cui i fratturesi sono i protagonisti. Durante le “riunioni di paese”, scelgono quali secondo loro sono le conoscenze o saperi da tramandare, cosa vibra nei loro ricordi, e quali argomenti discutere insieme, producendo un senso di appartenenza e di coralità, danno una continuità tra un prima e un dopo. E gettano dei semi per gli anni successivi. Quando si è addirittura arrivati a creare un palinsesto estivo realizzato interamente dai fratturesi. E’ una comunità che abbiamo definito competente. Ma io direi anche di più. Sono super organizzati, riescono a cooperare per progettare un evento riuscendo a superare anche vecchie ostilità. La creazione di valore e il processo creativo e di dono che ognuno ha messo in atto, per presentare le proprie poesie, i libri, le fotografie, i quadri, i laboratori linguistici e dialettali, le visite guidate, che ogni settimana fanno nei loro orti, le camminate tra paesi, e la visione di foto d’epoca, sono commoventi. In dieci anni abbiamo lavorato insieme tantissimo.

Allarghiamo, o forse, stringiamo lo sguardo: c’è una questione di genere irrisolta nei piccoli paesi?

La cultura patriarcale in tutta Italia, ma in tutto il mediterraneo, e direi dappertutto ha esercitato uno schiacciamento e una riduzione delle capacità di azione e di espressione delle donne. Relegandole a garanti del focolare, a caregiver, riducendola ad occuparsi di tutti i ruoli di cura, accudimento, custodia, sicurezza della prole, dei parenti, degli anziani e dei disabili. Ingabbiandola in una moralità e in un sistema di valori in cui la sessualità e l’espressione della propria femminilità era da colpevolizzare e schiacciare. Un ruolo disumano, tanto elogiato nella virtù e nella immacolata aura che le donne dovevano avere. Il desidero, la sessualità, la realizzazione lavorativa, un ruolo assertivo, e la libera scelta di non avere figli o sposarsi o avere una compagna  o addirittura cambiare sesso è impossibile. Pena l’esclusione, l’estromissione o la brutalizzazione. Non abbiamo fatto dei passi avanti, se ancora ne parliamo. Le esperienze difficili delle donne nei paesi sono molto comuni. Soprattutto per chi non ha i mezzi economici, culturali, psichici di ribaltare questo stato. Bisogna avere coraggio, molto coraggio, perché, per liberarsi da questo sistema maschilista e sessista di oppressione, la famiglia, la comunità fa ricadere su di te le responsabilità dei tuoi atteggiamenti. Legittimandosi nel denigrarti,  svalutarti ed escluderti. Invece per gli uomini, l’ostentazione, il bonding continuo che tra di loro esercitano. Cioè tutte quelle ritualità che servono per costruire la loro mascolinità intorno all’oggetto donna, è sotto gli occhi di tutti. E viene anche sostenuto. Ed è per questo che, se le donne hanno potuto, dai paesi se ne sono scappate.

Hai scritto che non si può chiedere ad un giovane coppia di andare a vivere in un piccolo paese”, smontando di fatto tante politiche che cercano proprio di favorire con iniezioni di denaro pubblico, processi di popolamento. In base a quali argomenti lo hai affermato?

Una giovane coppia, come tutti, vuole realizzare il proprio sogno. Un lavoro, una casa confortevole, un sistema di relazioni, un approvvigionamento culturale, essere stimolati e sostenuti. Avere delle garanzie minime, che gli permettano di vivere bene. Banalità, un medico di base, una farmacia, il benzinaio, un ufficio postale, delle corriere che colleghino il paese con centri più grossi. Un centro culturale, o un punto di aggregazione. Ma soprattutto coetanei, persone giovani, adolescenti e bambini. Avere stimoli vitali. Un paese di soli ottuagenari è un incubo. Mi dispiace, ma hanno bisogno di speciali accudimenti e garanzie che nemmeno loro hanno. E non puoi girarti dall’altra parte e dire faccio la mia vita, perché la vita in paese è orizzontale. E’ un sistema di reciprocità senza fine. E nei paesi manca tutto. Il tempo per intervenire e dargli una seconda vita, è già passato. Sono luoghi destinati a scomparire.

Mentre i paesi si spopolano in modo inesorabile, cresce un movimento culturale che vuole salvarli ad ogni costo, che lei definisce dei “paesofili”, cosa c’è dietro a questo fenomeno?

Credo che loro soffrano a prescindere. Non c’entra l’argomento paese, o borghi o lo spopolamento. E’ solo un modo per capire se sono ancora appetibili nel mainstream, se sono ancora interessanti, è un narcisismo che si riversa in questo argomento. Stanno solo sfruttando un hype. Ne parlano tutti, si sentono dei vati, dei profeti, degli anticipatori, ma parlano solo di se stessi, del loro dolore, di mancate rielaborazioni. La narrazione è tossica. Trasuda malessere. Non li leggo, c’è qualcosa di respingente. Non si può non considerare la storia di chi ha lasciato un luogo, una casa terremotata o crollata per il dissesto idrogeologico. Loro hanno sofferto, hanno dovuto necessariamente fare delle scelte. E non sono più tornati. Il paese non era sicuro. Fare delle elegie dall’interno di una casa terremotata sedendoti al loro tavolo, in una casa diruta, tra i loro oggetti personali è straziante. Entrando in una zona rossa senza caschetto di sicurezza e scarpe antinfortunistica e parlando come se volessi rianimare un luogo, e far tornare in vita tutto, mi sa di necrofilo. A pelle mi dà fastidio, mi fa stare male. Non si possono lanciare questi messaggi. E’ molto pericoloso, perché davvero la gente entra a casa degli altri, in paesi spopolati, sentendosi i tutori del passato, rubando di tutto.

Perché si usa quasi sempre il termine “borgo” e non invece “paese”?

Perché business is business e ti fa vendere di più. Creare una falsa narrazione su un luogo, che dirotta persone nel tuo paese, in cerca di autenticità, di prossimità e di verità. Costa meno che  risolvere i problemi di manutenzione, sicurezza, e servizi. Anche se manca tutto, stai vivendo la favola del camminare in un borgo. E’ solo marketing turistico.

Il non andare via da un paese, la “restanza”, per citare un fortunato saggio dell’antropologo Vito Teti, è una sconfitta, un non sapere dove andare e a fare cosa, o una scelta consapevole e a modo suo rivoluzionaria?

La restanza, se è consapevole, non hai nemmeno bisogno di definirla. Vuol dire che hai delle motivazioni interiori, lavorative, progettuali, di piacere o semplicemente perché stai bene in famiglia e vuoi continuare a crescere nel tuo paese. La restanza come atto mentale, come atto politico, come atto di ribellione, sinceramente non la capisco.  Verso chi o verso cosa si esplicita? Penso che in ciascuno di noi ci sia il desiderio di vivere bene, in un posto sicuro, che ti permetta di realizzarti, cercando amici e colleghi che possano sostenerti, in un luogo che non ti chiede di occuparsi di lei. I paesi spesso sono una palude stigia. Il sentimento più frequente di chi ha studiato fuori, o ha fatto esperienze formative o lavorative all’estero è quello di volerle traslarle nel proprio paese. Dopo i primi entusiasmi, arriva lo sconforto. Sono luoghi difficili, incastonati in sistemi di riferimento stantii e arcaici. A meno che un paese non abbia avuto una storia di crescita industriale e innovativa, in cui la tua idea può essere accolta e motivata. Ma se non hai un sostegno e non vieni riconosciuto, è davvero dura.





Nel cratere 2009 con miliardi di investimenti si sono ricostruiti e ristrutturati paesi che in molti casi sono gioielli di pietra, belli e finalmente anche sicuri sismicamente. Ma in buona parte restano vuoti. Si è sbagliato qualcosa ?

Il terremoto dell’Aquila è stato sconvolgente. E’ stato un enorme trauma, di cui ce ne siamo liberati a livello nazionale troppo in fretta. E’ vero ci sono dei paesi stupendi, incantevoli. L’offerta lavorativa che nel frattempo ha chiesto una digitalizzazione delle imprese, la frammentazione del tessuto sociale, l’isolamento ha fatto perdere il senso di continuità e di flusso. Lo scenario del terremoto è ancora troppo vicino. Il cuore della riflessione sulle aree interne è proprio l’Aquila nel post terremoto. Ma è più interessante occuparsi delle Capitali della Cultura e vivere la mondanità di questo argomento.

Che responsabilità hanno le classi dirigenti locali diciamo da cinquant’anni a questa parte in questo processo di spopolamento?

La tematica dello spopolamento, per come la stiamo vivendo e affrontando adesso ha un livello maggiore di comprensione. I sindaci di adesso, e in Abruzzo ne esistono di illuminati come la sindaca di Fontecchio, Sabrina Ciancone e il sindaco di Pizzoferrato, Palmerino Fagnilli, e ne potrei citare altri, che stanno lavorando in maniera eccellente con il proprio paese e che sono sindaci in prima linea, che hanno creato davvero degli avamposti di futuro e di innovazione. Sono dei riferimenti morali per noi che studiamo i processi di attivazione economica delle aree interne. Esistono comunque molti più comunicati stampa sullo spopolamento che dei veri interventi economici e sostegno dei giovani e dei bambini. Perché il target di riferimento sono proprio loro.

Lo smart working sarà la svolta dei piccoli borghi: cosa ne pensi?

Questo è un altro mito che il lockdown ci ha consegnato. Paesi che a fatica hanno una copertura telefonica, e non hanno ancora la connessione internet. Paesi che vivono da sempre un lockdown, dove fare una ricarica telefonica è una cosa difficile. Come si può pensare che un professionista si sposti in un paese per lavorare. Fare smartworking vuol dire che tu hai bisogno di un ufficio: stampante, fax, toner, scanner, luci, tavoli, oggetti di cartoleria, una segreteria, una sala per ricevere, un posto dove ricevere pacchi entro tempi ragionevoli, o dove possano arrivare i corrieri.  Partecipare a una vita lavorativa, fatta di incontri in presenza, convegni, fiere, rappresentanze. Ma soprattutto lavorare con la luce naturale. Le case nei paesi sono buie, i muri spessi, e per chiamare devi andare fuori. Altra cosa non indifferente. Lo smartworking non è ancora normato sulle condizioni lavorative. Nel senso che dallo stipendio vanno decurtate tutte le cose elencate prima, in più bisogna aggiungere le spese di luce, riscaldamento acqua e condominio. Tutte queste spese non te le garantisce il tuo datore di lavoro. A meno che tu non faccia parte della riccanza che si sta spostando a vivere nelle cascine di famiglia in situazioni molto comode. Nel caso in cui ti ti stia trasferendo sappi che vivrai da povero. Altra nota dolente. La costruzione di una dimensione lavorativa e una qualità della vita migliore è quella di lavorare con i tuoi colleghi. Ridere, scherzare, chiacchierare, scambiarsi informazioni sui figli, sui viaggi, sugli hobby. Litigare, imparare, condividere e scambiare. Innamorarsi. Perdiamo la parte più bella di qualsiasi lavoro. La relazione con i colleghi, anche nella difficoltà dei caratteri ci fa crescere. Non puoi andare in pausa e parlare dell’ultima call con la signora anziana di ottant’anni. Hai bisogni di stimoli, di essere riconosciuto e di vivere il flow creativo del tuo lavoro. Molti confondono i nomadi digitali con lo smartworking.

Lo spopolamento non ha risparmiato, restando dell’Abruzzo aquilano nemmeno splendidi paesi che sono meta di villeggiatura e attenzione mediatica, come Santo Stefano di Sessanio, che in 5 anni ha perso paesi  inoltre in borghi, pardon, paesi celebrati e sulla cresta dell’onda come Santo Stefano di Sessanio o Pescasseroli. Alberghi diffusi, turismo tradizionale oppure emozionale: è questa la soluzione?

Appena saremo tutti vaccinati, saremo tutti in fila per rifare il passaporto, per avere visti per l’estero e volare dall’altra parte del globo. Si tornerà ad un turismo credo più economico, agli affittacamere, ad airbnb, ai b&b e agli agriturismi. Ci sarà un desiderio che già sentiamo, di sconnetterci con il locale, di vivere una dimensione meno strutturata del viaggio, meno formale, e meno contenuti terapeutici. Più libera, forse più individuale ed esplorativa. Di sicuro dopo un anno tremendo, e di vita domestica forzata in cui abbiamo imparato a fare tutto dal lavoro, a curare le relazione, a fare gli aperitivi, alla ginnastica. Di sicuro si cercherà un maggiore contatto con gli elementi, con il mare, la natura, la montagna. Si sceglieranno le relazioni.

Per concludere: ma perché lei ha deciso dunque di abbracciare la causa dei paesi, andandoci a vivere per lunghi periodi?

Molti pensano che sia la mia missione di vita. Che sia una scelta radicale, pensano che io “salvi i paesi”. Invece li studio, li documento cerco di capire come funzionano dall’interno. E’ un argomento complesso che studio da più di dieci anni. E’ solo un tema di ricerca, che mi appassiona. Sono una mente vorace e curiosa, e abbraccio solo argomenti che sono in sintonia con ciò che mi fa vibrare. Essere entusiasta del proprio lavoro scandalizza. Lo so, e crea delle false credenze. Nel senso che prima dei borghi ho studiato la transizione del Vaticano tra papa Ratzinger e papa Francesco, e tuttora studio la trasformazione della preghiera e degli usi linguistici nel Vaticano di Francesco. Prima ancora mi sono occupata per tanti anni di Pow Camp, i prigionieri di guerra degli alleati, ho studiato e scavato le vite dei soldati fascisti e nazisti. E da circa vent’anni seguo le missioni archeologiche prevalentemente preistoriche. Questo dei paesi è solo uno dei tanti argomenti che ha attraversato la mia vita. Quando capisco bene come funziona un meccanismo dall’interno, mi piace smontarlo e rimontarlo. E’ un gioco che mi diverte, e mi appassiona. Credo sia per questo che sento tanta passione.

 

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