NEL 1968 UNA PROTESTA DURATA PIU' DI UN MESE NELLO STABILIMENTO ATI DOPO L'ANNUNCIO DEL DIMEZZAMENTO DEI DIPENDENTI A CAUSA DELL'AVVENTO DELLA MECCANIZZAZIONE

QUARANTA GIORNI DI PASSIONE PER IL DIRITTO AL LAVORO DELLE TABACCHINE LANCIANESI

di Azzurra Caldi

1 Maggio 2018 08:56

Chieti - Cronaca

LANCIANO – “Avevamo paura di restare senza lavoro, non potevamo permettercelo”.

Lidia Manzi, 84 anni, lancianese, ricorda da ex tabacchina le lunghe giornate di sciopero di 50 anni fa.

La rivolta delle tabacchine ebbe inizio a maggio del 1968, quando la dirigenza dello stabilimento Ati (Azienda tabacchi italiani) comunicò gli imminenti licenziamenti nello stabilimento di viale Cappuccini a Lanciano (Chieti): 400 lavoratrici sarebbero state licenziate per far largo a sistemi di produzione tecnologici decisamente più innovativi.

Delle 650 impiegate ne sarebbero rimaste solo 250. La prima manifestazione di protesta si svolse il 28 maggio e, qualche giorno dopo, lo stabilimento venne occupato.





“Non esitammo un momento, ci sentivamo senza vie di fuga e quindi scendemmo in piazza – spiega Manzi -. Questo lavoro significava tutto, non per noi, per le nostre famiglie. Molte di noi erano le sole che riuscivano a portare uno stipendio a casa, i nostri mariti o non lavoravano o avevano occupazioni saltuarie. Cominciammo a lavorare soprattutto per questo, in un momento in cui, soprattutto nelle piccole città e nei paesi, le donne che lavoravano in fabbrica venivano considerate delle poco di buono”.

Così seguendo, spesso inconsapevolmente, le trame di un periodo di rivolta, il ’68 per l’appunto, Lanciano insorge. Perché ha l’impressione di essere una città abbandonata, senza lavoro né dignità, trovando una conferma nell’annunciato licenziamento delle tabacchine. Lo stabilimento rappresentava insieme la vita economica e una speranza per la città, non era una questione che riguardava escusivamente le tabacchine.

Lo sciopero durò 40 giorni, la fabbrica venne occupata per tutto il periodo, alla manifestazione a sostegno delle tabacchine parteciparono oltre mille persone, tra studenti, operai e professionisti. Vennero addirittura chiuse le scuole.

Furono giornate intense, quelle consumate tra le strade della città. Momenti di tensione e tafferugli per i vicoli del centro, “na cummedij”, secondo la definizione di Manzi.

Come dimostrano i quotidiani che in quei giorni titolavano: “Drammatica tensione a Lanciano bloccata dallo sciopero generale” (L’Unità, 5 giugno); “Lanciano paralizzata dallo sciopero” (Il Tempo, 29 maggio); “Lanciano come una piazza d’armi” (Il Tempo, 5 giugno).





Venne anche incendiato un furgone delle poste, diversi carabinieri e poliziotti rimasero feriti e cominciarono a diffondersi false notizie che non fecero altro che acuire gli scontri. Dopo le proteste di quei giorni, e l’interessamento di istituzioni e sindacati, l’Ati continuò mantenere aperto lo stabilimento dapprima confermando assunzioni con contratti a periodo, poi riducendo drasticamente il numero delle lavoratrici – che era già ulteriormente dimezzato, se si considera che prima del 1950 le lavoratrici erano 1.250 – e infine chiudendo i battenti.

“Abbiamo ricevuto tanta solidarietà, nonostante tutto – continua Manzi -. Perché la fabbrica era importante per tutto il comprensorio. Entrai a lavorare nello stabilimento di viale Cappuccini nel 1958, avevo 24 anni, non avevo ancora figli, ero l’ultima di 7 fratelli. A lavorare in fabbrica eravamo io e mia sorella, Maria. Io mi occupavo di selezionare e dividere le foglie di tabacco, mentre lei stava all’imballaggio. Lo stipendio era di circa 15-16 mila lire, arrivavamo a 25 mila facendo gli straordinari. All’epoca un chilo di pane costava cento lire. Era uno stipendio dignitoso che ci permetteva di assicurare serenità alle nostre famiglie. Non era facile, anzi era molto stancante ma era indispensabile. Non era solo una questione di emancipazione ma di sopravvivenza. Anche se, proprio per questo, non venivamo viste di buon occhio, per molti eravamo un po’ troppo ‘intraprendenti’ e allora ci si rivolgevano con appellativi poco lusinghieri”.

“Cose impensabili oggi – ricorda Manzi -, come indossare i pantaloni. Se a portarli era una donna, infatti, veniva considerata una donnaccia. Queste sono cose che sia io che mia sorella abbiamo sempre raccontato ai nostri nipoti perché, anche se prese dalle piccole battaglie di sopravvivenza quotidiana, forse anche inconsapevolemente, abbiamo lottato per la nostra dignità”.

“Siamo state madri e lavoratrici, ci siamo sempre aiutate. Ci portavamo anche i bambini, o meglio, li incontravamo nel reparto maternità, dietro allo stabilimento. Lì potevamo allattare i neonati e stare con loro durante le pause. Le più fortunate abitavano vicino e riuscivano a tornare a casa. Andavamo d’accordo perché non poteva essere altrimenti, eravamo tutte sulla stessa barca e aiutarci a vicenda conveniva a tutte. Poi cominciarono ad assumere anche gli uomini, circa dieci, ma il grosso del lavoro lo facevamo noi”.

“Sono stata tabacchina per 28 anni”, dice Manzi. Poi guarda la foto della protesta fuori dallo stabilimento e indica, “queste eravamo io e mia sorella”.

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