ROMA – L’Italia è colpita dalla “sindrome della medietà”, con un ceto medio più povero e insicuro. Il Paese “si muove intorno a una linea di galleggiamento, senza incorrere in capitomboli rovinosi nelle fasi recessive e senza compiere scalate eroiche nei cicli positivi”.
Il Rapporto mette in luce che la “sindrome italiana” nasconde non poche insidie. La corsa verso i benessere si è fermata: i redditi sono inferiori del 7% rispetto a vent’anni fa e nell’ultimo decennio anche la ricchezza netta pro-capite è diminuita del 5,5%.
L’85,5% degli italiani ormai è convinto che sia molto difficile salire nella scala sociale. In questo quadro fermenta l’antioccidentalismo e si incrina la fede nelle democrazie liberali, nell’europeismo e nell’atlantismo: il tasso di astensione alle ultime elezioni europee (51,7%) ha segnato un record nella storia repubblicana: il 71,4% degli italiani ritiene l’Unione europea destinata a sfasciarsi, il 68,5% che le democrazie liberali non funzionino più e il 66,3% attribuisce all’Occidente (Usa in testa) la colpa dei conflitti in corso in Ucraina e in Medio Oriente. Non a caso, solo il 31,6% si dice d’accordo con il richiamo della Nato sull’aumento delle spese militari fino al 2% del Pil.
In questa situazione si infiamma la guerra delle identità sessuali, etnico-culturali, religiose, in lotta per il riconoscimento. E, mentre è in atto una mutazione morfologica della nazione (l’Italia è prima in Europa per acquisizioni di cittadinanza: +112% in dieci anni), l’Italia si scopre la patria degli ignoranti: il 30,3% non sa chi è Giuseppe Mazzini, il 32,4% crede che la Cappella Sistina sia stata affrescata da Giotto o da Leonardo, il 6,1% pensa che Dante Alighieri non sia l’autore delle cantiche della Divina Commedia
La mancanza di conoscenze di base rende i cittadini più disorientati e vulnerabili ed alimenta stereotipi e pregiudizi: il 20,9% degli italiani asserisce che gli ebrei dominano il mondo tramite la finanza, il 15,3% crede che l’omosessualità sia una malattia, il 13,1% ritiene che l’intelligenza delle persone dipenda dalla loro etnia.
LE CONSIDERAZIONI GENERALI DEL RAPPORTO
1. Si torna a ragionare di crescita. Il nodo di come sostenere il progresso della società italiana non può più essere rinviato. Il Paese ha iniziato timidamente a considerare la possibilità di assimilare i processi emergenti e di costruire percorsi di crescita con essi coerenti, perché è emerso il deficit di padroneggiamento collettivo delle profonde trasformazioni che lo scorrere della storia impone alla società italiana, nei comportamenti quotidiani e negli investimenti a medio o a lungo rientro.
2. La trasformazione del comparto industriale, condizionata dalla fragilità di molte filiere globali e dal rallentamento dei principali attori europei, in un quadro di crescente incertezza internazionale (specie per effetto dell’aumento dei costi di molte materie prime), apre a processi di innovazione e di investimento. La spinta a fare impresa dei giovani e delle famiglie che li sostengono, nei settori tradizionali come in quelli avanzati, preme su segmenti economici via via più rilevanti. La rafforzata coscienza sociale della domanda per la tutela dei fragili, delle donne vittime di sopraffazione e di violenza, degli anziani non autosufficienti, dei poveri, chiama il volontariato e il mondo eterogeneo del no profit a una profonda revisione strutturale degli assetti e delle forme della solidarietà non emergenziale. Non è senza significato che i richiami più alti e più critici risuonati più volte nell’ultimo anno per mettere in guardia dai rischi di una progressiva marginalizzazione dell’Italia e dell’Europa abbiano avuto in comune il timbro del dovere di umiltà, serietà, disciplina.
3. È alto il rischio che, dopo la vigorosa ripresa post-pandemia, peraltro eccezionalmente sostenuta dall’indebitamento pubblico, le prospettive di crescita dell’Italia si vadano rapidamente annuvolando. Esiste forse una contraddizione tra sentire comune e logica, dove il primo afferma il primato dell’uscita dall’attesa e la seconda l’incapacità, se non l’impossibilità, di prendere una strada e percorrerla con il necessario vigore e le adeguate speranze.
4. Il paradosso è più politico che sociale. La via di una società ultrademocratica – “poliarchica”, scriveva il Censis negli anni ’90 del secolo scorso –, in cui si governa, o almeno si concertano le scelte di governo, con i grandi soggetti collettivi, non ha funzionato. Dopo tanti anni di protagonismo politico, le tante forme di autogoverno nei sottosistemi sociali e territoriali, dei sindacati, delle associazioni di categoria, delle amministrazioni locali e regionali, sono rimaste come fumo in aria. Allo stesso modo, non hanno funzionato le ipotesi di un governo per carisma, per sovrabbondanza di poteri, per esercizio di capipopolo che decidono per tutti battendo i pugni sul tavolo. In mezzo, le abbiamo provate tutte: i governi 58° Rapporto Censis 4 tecnici, dei migliori o di transizione; i governi sovranisti o populisti; la devoluzione dei poteri e l’autonomia differenziata; l’antipolitica asfaltante. Si sono alternati miti e speranze della programmazione e delle riforme, senza rimuovere le incrostazioni del passato. Il corpo sociale, invece, anche in una società fragile e slabbrata, segue sempre una sua logica e tende a riportare a regime l’ingovernabile motore della crescita e dello sviluppo.
5. Dentro l’oscillare di continuità e cambiamento, di attesa e di trasformazione, di cinismo individualista e di coesione collettiva, in una complessità temporale povera di regole, come sempre il respiro sociale cerca un proprio ritmo per esercitare le proprie intenzioni. In questo anno difficile, e dopo un così lungo tempo trascorso nell’attesa, bisogna prendersi il rischio di andare oltre.
6. Dopo anni – ormai più di un quindicennio – in cui la società italiana è rimasta alla finestra, si affacciano all’orizzonte un nuovo scenario mondiale e un nuovo scenario tecnologico nei quali le barche non salgono e non scendono più tutte con la stessa marea.
7. In larghissima maggioranza, gli italiani tuttavia galleggiano, nonostante tutto e come sempre. Galleggiare abilmente non ci protegge però da una lunga serie di inconvenienti. Nell’acqua insipida è più difficile restare a galla: se il fluido nel quale siamo immersi cambia densità, o aumentiamo lo sforzo o andiamo giù. Se l’acqua via via diminuisce di livello, non affondiamo ma smettiamo anche di galleggiare e la parte immersa viene alla luce (e scopre i suoi difetti). Se le distanze tra gli uni e gli altri aumentano, perché intorno vediamo sempre meno famiglie e imprese che competono, l’adattamento resta a responsabilità individuale e smette di essere qualità collettiva, e sempre di meno saranno gli abili al galleggiamento. Fuor di metafora, sembra si possa dire che è vero che abbiamo resistito bene alle crisi, ma è venuto il momento di prendere atto che tutto questo non basta più.
8. La nostra società è molto più meticcia di quanto si dica, avvezza a mescolare valori e significati, persone e comportamenti. Un po’ occidentale e un po’ mediterranea, levantina e mediorientale, contadina e cibernetica, poliglotta e dialettale, mondana e plebea. Non siamo più una società in corsa tuonante per lo sviluppo, ma nemmeno siamo diventati un popolo di poveri diavoli destinati a rimanere miserabili.
9. In questi mesi, le nazioni europee più grandi e avanzate hanno mostrato molte fragilità in campo economico e sociale, come nell’espressione di leadership finanziaria, industriale, amministrativa. Ma l’Italia è un Paese 58° Rapporto Censis 5 antico, dove però è difficile tratteggiare una identità collettiva. Emerge l’immagine di un popolo polverizzato e con uno scarso senso della storia, comunque alla ricerca di una identità collettiva che riassuma in sé la lunga stagione della competizione delle identità individuali.
10. In un Paese che sente l’affanno del rimettersi in movimento, che rimette in gioco le sue dimensioni intermedie, che depotenzia le spinte imitative, che prova a muovere l’acqua non solo per galleggiare e sopravvivere, ma anche per muoversi in nuove direzioni, resta l’antico vizio di una scarsità di direzione, di un’assenza di traguardi e di coraggio per affermarli. È faticoso dare direzione allo sviluppo, immaginare una rotta e seguire una tabella di navigazione. Fare politica è un esercizio alto, è l’arte del consenso e dell’interpretazione dei sentimenti e dei bisogni sociali, è un compito complesso di responsabilità e di immaginazione: significa leggere nel Paese lo sguardo nel futuro. Eppure, l’anno che si chiude lascia l’amaro sapore di una politica tutta giocata sul gusto non di fare, ma di essere politici.
11. In una società chiusa, la crescita o non c’è o è drammaticamente lenta. Lo sviluppo economico, sociale e del benessere personale matura e diviene concreto nelle società capaci di aprirsi al nuovo, di spezzare il recinto, di esplorare nuovi confini, di accogliere nuovi innesti, di correre nuovi pericoli. Quando, viceversa, a ciascun gruppo sociale non sono accessibili reali possibilità di mobilità, di avanzamento, di promozione individuale, una società resta intrappolata in sé stessa, si ripiega, aspetta. Una società aperta porta con sé dei rischi, per le istituzioni collettive e per la vita privata, e, con i rischi, porta anche preoccupazioni relative alla perdita di sicurezza, alle limitazioni alla redistribuzione delle rendite, all’ibridazione culturale. È un rischio che la nostra società non sembra disponibile ad assumersi, ma che, allo stesso tempo, non può permettersi di non correre, se vuole crescere e non più galleggiare
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