TERAMO – “Negli anni ‘80 un mio amico venne impiccato. Ora il nuovo Presidente, Hakainde Hichilema abolendo la pena di morte, sta scrivendo la storia. Nessun uomo, anche il più potente della Terra, può avere il diritto di stroncare l’esistenza a un proprio simile, anche se questi dovesse essere la persona più malvagia e spregevole mai esistita nella storia dell’uomo. Il tutto perché, proprio per il fatto che la vita sia sacra, come ci è stata donata da un’entità superiore, sarà appunto sempre questa entità superiore a togliercela quando lo riterrà opportuno”.
A raccogliere la testimonianza di Emmanuel, in uno dei villaggi dello Zambia, giovane nazione dell’Africa del Sud che ha ottenuto l’indipendenza dalla Gran Bretagna solo nel 1964, è ancora una volta Leandro Bracco, ex consigliere regionale abruzzese, in cammino, dal 25 marzo scorso, da Dodoma a Maputo, per percorrere in nove mesi, Tanzania, Malawi, Zambia, Zimbabwe, Sudafrica, Eswatini e infine il Mozambico, con arrivo il 25 dicembre, e con l’obiettivo di finanziare ben otto progetti attraverso donazioni. Questo nell’ambito del progetto Alimentiamo la speranza.
Abruzzoweb ha inteso sostenere la lodevole e importante iniziativa, con collegamenti streaming e pubblicando un diario di viaggio.
Durante il 2022, prima di mettersi in cammino Leandro Bracco ha stipulato accordi con alcuni Ordini religiosi che da diversi decenni operano nelle sette nazioni che lo stesso Bracco sta attraversando in solitaria a piedi.
Queste realtà religiose hanno redatto progetti di carità e cooperazione i cui beneficiari sono quattro categorie di persone: bambini orfani e abbandonati, donne vittime di violenza, disabili ed ex detenuti.
Affinché questi progetti possano concretizzarsi, risulta basilare il contributo di tutti.
Del denaro che verrà raccolto, Bracco non tratterrà nulla. Ecco gli estremi per effettuare una donazione tramite bonifico.
Intestazione: Tucum – OdV
Iban: IT 14 E 03069 040131 000 000 61098
Causale: donazione per AlimentiAMO la SPERANZA
ZAMBIA OLTRE LA PENA DI MORTE, VERSO IL RISCATTO POSTCOLONIALE
“Finalmente!”. “Ora mi sento di essere nato in questa terra”. “Il suo nome sarà ricordato per sempre”. “Considerato che sei un europeo, non puoi neanche lontanamente immaginare cosa significhi per noi avere lui come Presidente della Repubblica”.
Potrei proseguire ancora nell’elencare ciò che mi è stato detto quando, di passaggio in non pochi villaggi, sono rimasto incuriosito dalle magliette che molte persone indossavano. T-shirt sulle quali campeggiava il viso di un uomo che sta cambiando lo Zambia, giovane nazione dell’Africa del Sud che ha ottenuto l’indipendenza dalla Gran Bretagna solo nel 1964.
Ma quali sono state le decisioni per merito delle quali in moltissimi considerano Hakainde Hichilema una sorta di statista vivente a soli due anni dal suo trionfo elettorale? Era infatti il mese di agosto del 2021 quando si svolsero le elezioni che sancirono la sua eclatante vittoria.
Il Partito per lo sviluppo nazionale di cui lo stesso Hichilema è leader, surclassò il presidente uscente Edgar Lungu. 2,85 milioni di voti contro 1,87 milioni.
Il 59% contro il 39%. Un successo schiacciante.
In uno dei villaggi nei quali mi fermo durante una tappa particolarmente lunga, mi avvicino a un giovane sulla trentina. Il suo nome è Emmanuel. Anche lui sfoggia la maglietta con raffigurato il viso del Presidente.
Iniziamo un’interessante conversazione ma non appena gli rivolgo la primissima domanda che riguarda il suo parere riguardo l’operato di Hichilema, veniamo raggiunti da un anziano. Mi guarda con fare circospetto. Il suo atteggiamento è spigoloso e non facilita per nulla il mio tentativo di intervista.
Pur spiegandogli cosa sto facendo, non ottengo risultati. Non comprende infatti la lingua inglese. Parla solamente un dialetto zambiano. A questo punto interviene Emmanuel che si arma di pazienza. Fornisce all’anziano sommarie informazioni sia su di me sia sui motivi per i quali mi trovo nel loro villaggio.
Il mio ‘avversario’, che ho scoperto chiamarsi Joseph, pur acquietandosi non demorde. Pretende infatti di rimanere presente durante l’intervista. Emmanuel, estremamente gentile con un forestiero come me, si scusa. Gli dico che non ci sono problemi.
A questo punto interviene proprio Joseph che in maniera diretta e senza troppi fronzoli mi fa dire dal ragazzo che non è cosa buona che un bianco faccia domande su questioni politiche di un altro Paese.
Gli domando il motivo. Il suo sguardo si fa di nuovo scuro. Emmanuel, inaspettatamente, prende le mie difese e fa da cuscinetto fra me e l’anziano che nel frattempo si è dato una parziale calmata.
Inizio l’intervista chiedendo un giudizio sull’operato del presidente Hichilema considerato che siamo quasi al giro di boa: 2 anni rispetto ai 5 di mandato.
Emmanuel è un fiume in piena e tesse gli elogi del Presidente soprattutto sul tema dei diritti umani e, nello specifico, di quelli dei detenuti.
Mi dice infatti che nessun Capo di Governo aveva avuto il coraggio di abolire la pena capitale. Hichilema invece ciò che ha promesso in campagna elettorale, una volta eletto l’ha realizzato e attuato.
Emmanuel per diversi anni è andato a scuola ed è un piacere ascoltarlo. È documentato riguardo ciò che dice ma soprattutto alla retorica insignificante delle frasi fatte preferisce la concretezza dei fatti e dei numeri.
Rivela che nello Zambia, sin dal 1997, le esecuzioni capitali non sono mai state eseguite ma sempre commutate in condanne all’ergastolo. Ciononostante nessun presidente aveva avuto l’ardire di abolire tout court la pena di morte.
La motivazione non è ardua da individuare: non inimicarsi quella parte di elettorato che guarda con compiacimento e approvazione l’operato del boia.
“Invece il Presidente Hichilema – prosegue Emmanuel – ha dimostrato spessore etico e morale, saggezza e lungimiranza. Ha infatti spiegato agli zambiani i motivi per i quali si sarebbe apprestato a firmare un atto storico nei sessant’anni scarsi di indipendenza del nostro Paese”.
“In pratica – mi rivela – i motivi sono stati tre: il primo è che se lo Stato toglie la vita a una persona che a sua volta ha commesso un crimine terribile come ad esempio l’omicidio, proprio lo Stato si mette sullo stesso piano del criminale e dunque, invece di dare il buon esempio essendo appunto lo Stato, si abbassa a un livello infimo”.
“Il secondo – continua Emmanuel – è che la vita è sacra fin dal suo concepimento. Per questo motivo nessun uomo, anche il più potente della Terra, può avere il diritto di stroncare l’esistenza a un proprio simile, anche se questi dovesse essere la persona più malvagia e spregevole mai esistita nella storia dell’uomo. Il tutto perché, proprio per il fatto che la vita sia sacra, come ci è stata donata da un’entità superiore, sarà appunto sempre questa entità superiore a togliercela quando lo riterrà opportuno”
“Il terzo motivo – conclude – riguarda la consapevolezza sull’errore che si è commesso e la conseguente giusta pena che ne deve derivare in termini di detenzione. Se in nome dello Stato si toglie la vita a un individuo, si interrompe bruscamente il processo di comprensione dell’atto deplorevole di cui una certa persona si è resa purtroppo protagonista”.
Rimango estremamente colpito dalla profondità dei ragionamenti che Emmanuel ha voluto condividere con me. Lo ringrazio per il tempo che mi ha dedicato ma, mentre lo saluto, Joseph s’inserisce nella conversazione. È molto cambiato rispetto a una decina di minuti prima.
È riflessivo e mi chiede, tramite Emmanuel che traduce, se può aggiungere una cosa. Gli rispondo che non mi deve chiedere il permesso ma che anzi lo ascolterò con piacere. Mi dice che negli anni Ottanta, un suo caro amico fra l’altro coetaneo che aveva commesso un assassinio, era stato condannato a morte e che poche settimane dopo la sentenza, la pena era stata eseguita tramite impiccagione.
Lui era stato male per mesi nel sapere che al suo amico era stata tolta la vita. A lui infatti lo legava un sentimento di profonda amicizia. Gli domando se a suo parere possa esserci stato un errore giudiziario.
Mi risponde con nettezza: “No, il mio amico era colpevole. Aveva ammazzato con furore un altro uomo per un debito di denaro non onorato”.
Joseph però pone l’accento su una circostanza che secondo lui ha segnato in maniera indelebile la crescita e lo sviluppo come persona del suo amico.
“Suo papà era un alcolizzato. Negli anni in cui eravamo entrambi bambini e poi adolescenti, mi raccontava che il padre, quasi sempre ubriaco, lo picchiava con bastoni, spranghe e lo frustava con la cintura dei pantaloni. In più occasioni mi fece vedere i lividi e i segni che le torture che subiva gli lasciavano sulla pelle. Rimasi inorridito soprattutto dalla sua schiena. Al mio amico è stata dunque inculcata la cultura della violenza. Questo modo di agire ha di conseguenza contraddistinto tutta la durata della sua breve vita”.
“Il mio amico – sottolinea Joseph – ha commesso un crimine terrificante e doveva pagare con la detenzione. Togliergli la vita, però, è stato un errore. Lo Stato avrebbe dovuto aiutarlo a farlo diventare una persona migliore rispetto a quella colma di rabbia e ira che è stata per responsabilità prevalentemente non sue ”.
Rimango in silenzio per alcuni attimi che comunque sembrano andare avanti per un tempo infinito.
La vicenda che Joseph mi ha raccontato mi ha colpito non poco.
“Scusami – mi dice – se prima ti ho trattato in maniera non amichevole. Quando si affrontano certe tematiche – si confida – per me è una ferita che si riapre e che a distanza di decenni ho compreso non essersi mai chiusa”. Gli porgo la mano e lui me la stringe con trasporto.
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