PESCARA – “La crisi demografica che interessa e continuerà ad interessare l’Italia e l’Abruzzo avranno pesanti ripercussioni sotto il profilo della crescita, del benessere, della tenuta del welfare state e del sistema pensionistico. Occorre dunque già da ora ripensare il sistema economico nel suo complesso, come pure la vocazione delle aree interne, le più soggette a spopolamento, che possono avere un futuro solo con una integrazione forte, sistemica, con le aree costiere e di pianura, quelle a maggior prodotto interno lordo”.
In soli sette anni, dal 2013 al dicembre 2020 l’Abruzzo ha perso ben 48.906 abitanti, ovvero un’intera città delle dimensioni di Chieti. Un fenomeno che riguarda l’intera Italia, come pure il nostro pianeta, che nel 2100 ospiterà 8,8 miliardi di persone, ovvero 2 miliardi in meno rispetto alle attuali proiezioni delle Nazioni Unite. Con un tasso di fertilità già oggi fra i più bassi al mondo e destinato a scendere ancora, l’Italia nel 2100 è destinata a svuotarsi, perdendo metà della propria popolazione.
La questione demografica, che ha segnato il destino di civiltà e imperi, non sembra essere nel novero delle questioni prioritarie della classe politica italiana, a cui interessa semmai il limitatissimo orizzonte temporale della successiva scadenza elettorale, e della maturazione del diritto al vitalizio.
Ed è per questa ragione che Abruzzoweb ha inteso intervistare Nicola Mattoscio, presidente da 15 anni della della Fondazione Pescarabruzzo, in questo caso però nella sua autorevole veste di economista, esperto dei mercati finanziari e della sostenibilità della new economy, professore straordinario di Economia politica all’Università G. Marconi di Roma e già professore ordinario all’Università di Chieti Pescara. Nella sua carriera ha insegnato anche all’Università di Firenze e di Teramo. È stato ripetutamente visitor researcher all’ Institute of Research in the Social Sciences dell’Università di York, nello State University di New York, all’University College di Dublino e alla London School of Economics.
Nell’intervista Mattoscio si cimenta in una lettura prospettica a partire dai dati Istat sull’erosione demografica. In Abruzzo il capoluogo L’Aquila regge botta rispetto agli altri tre capoluoghi perdendo solo 1.115 abitanti. Sulmona ha subito una emorragia, mentre in controtendenza aumentano gli abitanti a Francavilla, Montesilvano, Martinsicuro, a Vasto e, in provincia dell’Aquila, in piccoli comuni come Villa Sant’Angelo, San Demetrio nè Vestini e Scoppito. Il dato che deve allarmare in Abruzzo è poi che ha perso in questi sette anni 26.567 giovani, nella fascia di età dai 15 ai 31 anni con una flessione dell’11,12% valore quest’ultimo pari a due volte e mezzo quello italiano che è stato di appena il 4,53%. Scendendo nel dettaglio i comuni montani in fase di spopolamento, al 31 dicembre 2020, sono 186 ed hanno subito, in 7 anni, un decremento di 28.796 unità che in valori percentuali è pari al 9,52%.
Professor Mattoscio, come leggere questi numeri relativamente alla nostra regione?
Il dato più significativo è che la diminuzione di popolazione ha un trend doppio, negli ultimi cinque anni, rispetto alla media nazionale. Inoltre che si confermano gli squilibri tra zone interne e zone costiere Ma attenzione, tutte le aree della regione sono interessate all’erosione demografica seppure in proporzione diversa: la provincia dell”Aquila perde il 2,7%, quella di Chieti circa il 2%, le province di Pescara e Teramo in media l’1,2%. Il fenomeno è globale, riguarda l’Europa, riguarda l’Italia: tutti i dati e le proiezioni confermano che l’Italia nel 2050 avrà una popolazione di 54 milioni di abitanti, rispetto ai 60 milioni attuali, e la flessione demografica riguarderà soprattutto il Meridione, che perderà 3,5 milioni di abitanti, mentre il Centro perderà 800mila abitanti, il Nord del paese circa un milione.
Questi i numeri, quali saranno dunque gli effetti sulla tenuta del welfare e del sistema pensionistico come lo conosciamo?
Nel 2050 in Italia ci sarà un rapporto tra giovani e persone anziane di 1 a 3, questo significa che lo squilibrio sarà esplosivo, dovremmo immaginare che ogni giovane si dovrà caricare sulle proprie spalle il peso esistenziale di tre persone anziane.
Ed è sostenibile?
Per quanto si possa essere ottimisti sulle capacità produttive, che sicuramente miglioreranno grazie a ulteriori innovazioni tecnologiche, no, non sarà possibile, il peso sarà insostenibile con ripercussioni sociali ad oggi nemmeno immaginabili.
Insomma, professor Mattoscio, come saranno pagate le pensioni alle attuali generazioni di lavoratori, già in buona parte precari e sottopagati?
Finora i modelli previdenziali sono definiti sotto il profilo tecnico e scientifico sulla base del lavoro di ricerca del nostro premio Nobel Mario Modigliani, ovvero sulla base dell’equilibrio intergenerazionale, sul risparmio delle giovani generazioni che devono finanziare i consumi delle generazioni anziane, che non solo non risparmiano più, ma che consumano non contribuendo più all’attività di produzione. Ora quel modello non regge più, andrà seppellito e pensare ad altro.
E su quale altro modello si sta ragionando?
Si va nella direzione di sperimentare modelli di previdenza di tipo privatistico, ma in scenari che comporteranno inevitabilmente difficoltà inedite, perché la teoria scientifica che supporta i modelli di successo di crescita hanno al centro il fattore delle risorse umane, e le dinamiche demografiche sono le variabili più rilevanti per spiegare la produzione di nuova ricchezza.
Pensioni private, ovvero solo i benestanti, chi potrà permettersi una polizza, potrà avere una pensione?
Il rischio è esattamente questo, l’aumento della disuguaglianza. Ritengo dunque che non vi potrà essere nessun modello alternativo privatistico che possa sopperire a carenze dei modelli previdenziali tradizionali. Non abbiamo alternativa, dobbiamo ripensare l’intero modello di economia, e la previdenza dovrà essere necessariamente essere al centro di una nuova politica economica pubblica.
I dati sull’erosione demografica, ma non è certo una novità, attestano che lo spopolamento riguarda soprattutto le aree interne e montane. Anche qui nei nuovi scenari, con molti più spazi e sempre meno persone, che politiche di rilancio possono essere pensate?
Ciascuna area interna assume specificità variegate, a seconda delle realtà storiche e geografiche, comunque in linea generale ed astratta, l’esperienza e anche la ricerca scientifica di base ci dimostrano che non si possono si possono affrontare questi problemi isolatamente. Ovvero qualunque proposta che si prefigge di dare risposte alle zone interne prese isolatamente, sono destinate al fallimento e all’insuccesso. Occorre intervenire con modelli di crescita integrati con le aree costiere e di pianura, quelle a forte crescita e sviluppo.
Torniamo insomma al frequentatissimo slogan dell’avvicinare le montagne al mare, ma non questa volta nella sua declinazione turistica ed emozionale. Che esempio possiamo fare di questa integrazione?
Prendiamo i servizi alla persona: gli anziani diventeranno sempre più numerosi, e dunque si può immaginare che i piccoli centri storici dei borghi dell’entroterra possano offrire servizi integrati per le persone anziane, come alternativa alle rsa che si trovano nelle città, garantendo una maggiore qualità della vita, una dimensione più umana, con spazi privati e servizi di vario genere, dai centri di aggregazione alla biblioteca e al barbiere, sul modello anche americano dove artificiosamente vengono creati i villaggi ad hoc per la terza età.
Altro dato eclatante: l’Abruzzo è sempre meno attrattivo anche per gli stranieri. Nel 2020 con 82.568 stranieri su un totale di 1.281.012 abitanti, ovvero il 6% di stranieri rispetto al 9% nazionale. Chi aveva paura dell’immigrazione ora potrà dormire sonni tranquilli?
E’ un dato su cui riflettere: va tenuto conto che l’immigrazione negli ultimi anni è stata determinante per mitigare la flessione demografica. Ora bisogna prendere atto che contesti che si impoveriscono come quello italiano diventano meno attrattivi per i migranti, e dunque anche sotto questo profilo ci sarà una accentuazione della crisi demografica dell’Italia nel suo insieme, e poi nelle sue articolazioni territoriali.
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