“TEATRO E’ RITO COLLETTIVO, NETFLIXZZAZIONE NON PUO’ FUNZIONARE”, INTERVISTA A GIUSEPPE MARINI

di Giovanni Maria Briganti

30 Giugno 2021 08:25

Regione - Abruzzo, Cultura, Tracce

PESCARA – Immaginiamo per l’occasione di trasformare le pagine di Abruzzoweb in un palcoscenico virtuale e di evocare gli istanti che precedono l’inizio di uno spettacolo. Il pubblico fa il suo ingresso. Le luci di sala lentamente si spengono. Piccolo brusio di sottofondo. Silenzio. La tela rossa del sipario scopre la scena.

Al suo aprirsi si trova al centro del palcoscenico l’ospite della nostra intervista: Giuseppe Marini. Attore di formazione, regista teatrale di professione, insegnate di recitazione presso la scuola di Teatro della Regione Lazio “Officine Pasolini”, Giuseppe Marini è uno dei registi teatrali più apprezzati del panorama nazionale.

Laureato in Sociologia, nel corso della sua carriera ha formato giovani promesse della scena e diretto numerosi nomi illustri del mondo dello spettacolo come Annamaria Guarnieri, Pino Micol, Paola Gassman, Ugo Pagliai, Maria Paiato, Patrizia Zappa Mulas, Nancy Brilli ed è stato anche l’ultimo regista a dirigere la straordinaria Franca Valeri. Ne approfittiamo dunque per rivolgergli alcune domande…

Come nasce in Lei la passione per il Teatro?

Non posso dire di aver avuto da bambino il “Sacro fuoco dell’Arte”. Vengo da una famiglia di origini culturalmente modeste, nella quale si parlava poco di Teatro. Posso dire che il primo interesse per questo settore dello spettacolo sia nato in me durante gli anni del liceo, grazie ad alcuni professori illuminati che ringrazio ancora oggi. Loro portavano spessissimo tutta la mia classe a Teatro. La passione è iniziata in questo momento quindi, verso i diciassette-diciotto anni, e ha fatto germogliare in me l’idea che, forse, mi sarebbe piaciuto che diventasse anche la mia professione. Ma dopo il liceo, per qualche anno, ho interrotto questi “pensieri” sul Teatro. Intorno ai ventitré anni, il “germe teatrale” è tornato prepotentemente nella mia vita e da lì mi sono deciso a interrompere momentaneamente l’Università per poter virare su una vera formazione teatrale, frequentando il triennio alla scuola di Alessandro Fersen. Una volta uscito da lì, non mi sono più fermato.

Lei, in qualità d’attore, ha avuto modo di essere diretto da registi molto apprezzati del panorama teatrale come Giancarlo Sepe, Massimo Castri, Giorgio Prosperi per fare alcuni nomi… aveva già in mente che nel tempo si sarebbe dedicato anche Lei alla regia?

Sentivo che qualcosa cominciava a non bastarmi più. Questo posso dirlo. Ma dopo la mia esperienza di attore, prima di passare alla regia, ho cominciato a insegnare. La mia attività d’insegnante di recitazione ha accompagnato sempre, costantemente, la mia carriera d’attore prima e ora di regista. In una scuola in particolare – il Teatro del Sogno – cominciai a coltivare un numero di allievi “migliori”. Di questi allievi alcuni oggi sono diventati attori molto apprezzati dal grande pubblico e con loro all’epoca formammo l’ensemble parol&musica.

Da chi era composto?

Vinicio Marchioni, per esempio. Lui è stato uno dei primi allievi che si sono formati con me, ma potrei anche dire Lucia Calamaro, oggi apprezzata drammaturga della scena Nazionale, e Claudio Santamaria che è stato il primo interprete di “Puk” nella messa in scena che realizzai del Sogno di una notte di mezza estate.

Uno dei primi spettacoli realizzati dall’ensemble parol&musica è stato “QUADrat”, uno spettacolo beckettiano…

Era un montaggio di brani tratti dalle opere di Samuel Beckett. “QUADrat” era uno spettacolo molto difficile, sia dal punto di vista registico sia, mi rendo conto, per gli attori, perché era soprattutto ritmico, basato interamente su regole musicali di ferro. Ma è stato un lavoro tanto difficile quanto affascinate e stimolante per tutti noi. Otto attori in una partitura di movimento molto rigida, nella quale non era ammesso l’errore. Era quasi una coreografia.

Dopo “QUADrat”, Lei ha messo in scena “Una casa di Bambola” di Henrik Ibsen…

Da questo spettacolo posso dire che sia nata davvero la mia avventura come regista teatrale. Fu infatti da questa esperienza che arrivarono le prime attenzioni della stampa e della critica nazionale. E fu proprio questo spettacolo a farmi conoscere Franco Clavari, legale rappresentante di Società per Attori, che da quel momento divenne il produttore di tutti i miei lavori. Con lo stesso cast di parol&musica l’avventura teatrale è poi continuata con le messe in scena di “Antigone”, del “Sogno di una notte di mezza estate” e “Amleto”…





Lei è stato un importante punto di riferimento per schiere di giovani attori e attrici. Quali sono stati invece i Maestri che l’hanno accompagnata o artisticamente ispirata, lasciandole un segno durante gli anni di formazione?

Ho sempre avuto – e ho ancora oggi – “fame di apprendimento”. Non mi stanco mai di imparare. Ho cercato di formarmi conoscendo e approfondendo il metodo di vari Paesi, non solo dell’Italia. Mi sono documentato e ho studiato la scuola russa, poi quella americana e quella francese. Ho cercato e incontrato varie metodologie. Arriva poi, naturalmente, una sintesi e questa costituisce la propria strada e la poetica personale. Comunque, posso dire che all’inizio, una radice rigorosa e formale, dal punto di vista visivo, me l’abbia fornita il Teatro di Bob Wilson, anche se non l’ho avuto come diretto Maestro. Ogni artista ha delle vere e proprie “tappe” nella sua formazione. Probabilmente se dovessi rimettere in scena uno spettacolo già fatto in passato non lo rifarei tale e quale, rivedrei delle cose, non per disconoscerle, ma perché si va avanti, si cresce e quello che prima poteva essere una fede incrollabile su alcuni aspetti, col tempo viene messa in discussione.

Oltre ad aver alternato la direzione di attori noti al grande pubblico con giovani promesse della scena, Lei ha sempre condotto quasi in parallelo la messa in scena di testi classici con lavori di nuova drammaturgia, rappresentando testi di autori italiani contemporanei come Vitaliano Trevisan, Claudio Fava, Massimiliano Palmese e non solo. Come orienta le sue scelte di teatrali?

Innanzi tutto un testo mi deve parlare. Mi interessa quello che non è stato ancora detto. Ho un amore sviscerato per i classici e in questi cerco di dire la mia trovando aspetti che non sono stati affrontati prima. Certo, ora è un po’ più complicato lavorare su questi testi…

Per quale motivo?

Quando ho iniziato io era un pochino più “possibile”. Non che oggi non si possa fare, ma occorre mettere insieme almeno due Teatri Stabili per realizzare degnamente un “Amleto”, per esempio, con il numero di attori previsti e con un certo numero di repliche per fagli avere una “vita” soddisfacente. Nel momento in cui decido di affrontare un testo classico, resto fedele alla durata e al testo. Non ho mai fatto operazioni di riduzione e sottrazione su testi classici. Per mia scelta ho sempre voluto fornire al pubblico una messa in scena in linea con il testo che rappresentavo. Per cui, se sceglievo, per esempio, il “Romeo e Giulietta”, il pubblico veniva a vedere il “Romeo e Giulietta” con il numero di attori previsti da Shakespeare e assisteva alla storia scritta dall’autore. Non ho mai creduto in riduzioni drastiche.

E per quanto riguarda la nuova drammaturgia? La considera un ripiego dunque vista la difficoltà di poter oggi rappresentare i classici?

No, nel modo più assoluto. Quando scelgo un lavoro di nuova drammaturgia lo faccio perché sono una persona curiosa e perché penso che un artista debba testare un po’ il presente, senza copiarlo, e cercando di porsi sempre un passo in avanti per arrivare a rivelare qualcosa di nuovo. La discriminante è una sola, se leggo un buon copione mi domando: “perché non farlo?”.

Come può essere valorizzata la drammaturgia italiana contemporanea secondo la sua opinione?

Nelle stagioni dei Teatri italiani purtroppo è carente, fatte alcune eccezioni. Se si tratta di uno spettacolo che deve avere una “vita”, nel senso di avere la possibilità di andare in tournée per un buon periodo ed essere visto dal maggior numero di persone possibili, allora – ameno così ritengo – occorre “veicolarla” con un nome di richiamo.  Questo perché ci sono regole produttive molto ferree.

Come è cambiato il sistema teatrale negli anni e come cambierà una volta che si potrà tornare a una normalità?

In vent’anni molto è cambiato. Prima potevi mettere in scena testi molto più rapidamente. Oggi non è possibile, se si lavora soltanto con produzioni private. Mi reputo uno di quei professionisti “estranei alle logiche del potere”. Per cui, quando mi capita di proporre dei lavori a dei colleghi direttori di Teatri Stabili o di contesti statali, molto spesso non ottengo da loro neanche una risposta. Chi ha l’occasione di occupare luoghi di potere è solito non prestare molto ascolto a proposte che vengano da altri. È quasi impossibile aprire un dialogo, figuriamoci realizzare uno spettacolo! Quindi, dovendo lavorare con i privati, occorre mettere insieme più co-produzioni e coinvolgere i circuiti di distribuzione che prima erano davvero forti mentre oggi devono affrontare sempre più difficoltà. Oggi occorre rimodulare le proposte. Se prima bastava la propria firma a garanzia di un certo tipo di lavoro, oggi non è più così scontato. Dobbiamo capire e modulare molto bene ogni progetto. E non è neanche detto che si riesca a realizzarlo. Il linguaggio teatrale oggi è molto snaturato.

E cambierà la situazione nel Teatro del post-covid?

Il post-covid è talmente vicino che non so bene cosa succederà. Posso dire che comunque non saremo gli stessi. Anche se apparentemente potrà non sembrare così, nel profondo, credo che tutto quello che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo ci abbia fortemente condizionato. Il fatto di aver subìto uno stop per più di un anno ci ha cambiato come artisti, perché abbiamo vissuto una rivoluzione emotiva, umana. Mi auguro che questo possa favorire una rimodulazione delle proprie capacità espressive e dei propri pensieri. Immagino che nei primi tempi ci saranno delle riprese di quelli spettacoli che erano pronti e sono stati interrotti a causa della pandemia. Per i progetti nuovi, più ambiziosi, ritengo che i produttori aspetteranno del tempo prima di realizzarli. Spero che si possa migliorare un po’ nell’ascolto e nella solidarietà. Sarebbe molto triste se non cambiasse qualcosa in meglio.

Durante questo anno e mezzo di interruzione da ogni attività, si sono succeduti due governi. Lei ha notato una particolare attenzione nei confronti del mondo dello spettacolo da parte di chi era al potere nel governo di prima e in quello attuale?





I governi si sono succeduti con la particolarità che il Ministro per il nostro settore è rimasto lo stesso. Ne sono state dette tante e fatte molte critiche, ma il vero problema, alla base di tutto, è che il Teatro e lo spettacolo dal vivo è da sempre la “Cenerentola” e il fanalino di coda di tutto il sistema. E quindi? A questo settore spettano le briciole rispetto alle attenzioni rivolte a qualsiasi altro. Quello che è venuto fuori da questa situazione è che hanno voluto far proliferare altre industrie, tipo quella cine-televisiva, perché portano più soldi. Secondo me il Covid è stato una prova generale. Visto che il Teatro non porta voti e non fa un gran numero di audience e quindi non serve al politico come “oggetto di scambio”, viene messo da parte. Non sanno bene come scaricarlo. La netflixzzazione del Teatro non può funzionare.

Perché?

Non è possibile perché il Teatro ha bisogno di un luogo fisico, della vicinanza di persone, di condivisione, perché si tratta di un “rito collettivo”. Non si può avere tutto in casa o vicino casa. Pensiamo ai greci che per andare a Teatro scalavano colli e affrontavano intemperie! Il Teatro, dalla sua nascita, impone uno sforzo. Se quella proposta di streaming poteva riaccendere e attivare, in quel momento storico, un “desiderio di Teatro” allora aveva un senso, ma non potrà mai sostituire il rito del Teatro. Perché il Teatro viva meglio, occorrono soldi, regole e leggi nuove.

Tra gli incontri importanti della Sua carriera, troviamo sicuramente quello con la grande Franca Valeri che Lei ha avuto modo di dirigere in più spettacoli, tra i quali ricordiamo: “Les Bonnes”, “Carnet des Notes”, “Non tutto è risolto” e “Il cambio dei cavalli”. Che ricordo ha di questa meravigliosa attrice a quasi un anno di distanza dalla scomparsa?

Potrei parlare giorni interi di Franca e del nostro incontro professionale, diventato nel tempo anche vera amicizia. Diciamo che la scommessa di partenza era quella di riuscire a dirigere un’attrice del suo calibro anche in un’opera che lei non avesse scritto. Scommessa vinta in partenza. Franca era una persona molto generosa anche se molto selettiva. Con Lei potevo parlare di tutto, non c’era qualche argomento che fosse tabù e questo mi ha permesso di continuare la nostra collaborazione e sviluppare parallelamente una vera e propria amicizia transgenerazionale. Era talmente geniale e intelligente che “andava oltre”. Franca aveva lo stesso entusiasmo di una debuttante e se giudicava il regista degno della sua stima, a oltre novant’anni, non faceva sentire il peso della sua straordinaria e vastissima cultura. Nell’ultimo lavoro che realizzammo assieme – “Il cambio dei cavalli”, in occasione del Festival di Spoleto – Lei aveva novantasei anni. Ricordo che dopo una prova durata più d’un’ora e mezzo, pensavo che fosse il caso di farla riposare, invece Lei una volta che conclusi le note di regia mi disse: “Ma come tutto qui?”. Franca era pronta a provare ancora e ancora e ancora. Con i mezzi che aveva, certo, ma sempre a disposizione dell’Arte. Era tutta la sua vita. Occorreva inventarsi di tutto per mandarla a casa la sera, Lei voleva continuare a vivere le prove e a stare sul palco. Amava anche andare a cena dopo lo spettacolo, stare insieme agli amici e parlare di Teatro. Franca non era un’attrice, era un genio. Le bastava un’occhiata per capirti e inquadrati alla perfezione. Il peso della sua mancanza si fa sentire ogni giorno di più, perché la sua era una voce “contro”.

Di recente si è tornato a parlare di Franca Valeri per via della proposta, avanzata dall’attuale Sindaca di Roma, di intitolarLe il Teatro Valle. Questa idea ha sollevato diverse critiche e accese polemiche anche se si tratta di un’iniziativa incerta e che potrebbe realizzarsi solo tra qualche anno…

Ritengo che le critiche sollevate siano pretestuose. Intanto c’è una continuità storica perché tutte le commedie di Franca – dico tutte – hanno debuttato proprio al Teatro Valle. Il Valle e Franca hanno una storia lunga quasi tutta la carriera di questa straordinaria interprete. Il Valle è il “Teatro di Franca”. È vero che hanno calcato quel palcoscenico tantissime personalità che hanno fatto la storia del Teatro, da Adelaide Ristori, alla prima mondiale dei Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, solo per citare qualche episodio. Però, parlando di Franca, non ci potrebbe essere omaggio migliore. Sono pretestuose le polemiche anche perché il Teatro Valle non cambierebbe nome: quello di Franca verrebbe aggiunto esattamente come l’attuale Teatro Quirino è stato aggiunto “Vittorio Gassman”. Noi, a Roma, non diciamo “andiamo a vedere uno spettacolo al Gassman”, diciamo “andiamo al Quirino”. Così sarebbe per il Valle – quando riaprirà agli spettacoli – qualora dovesse chiamarsi “Teatro Valle – Franca Valeri” si continuerà a dire “andiamo al Valle”. Si tratta di un secondo nome per omaggiare una Signora del Teatro. Non toglie nulla a tutta la storia che ha avuto questo importante luogo.

Lei è uno dei pochi registi che nei suoi allestimenti riesce a dare valore a ogni aspetto che compone la messa in scena: dal testo, alla recitazione, alle musiche, alle atmosfere per mezzo delle luci… Questo le deriva dall’aver vissuto in prima persona il Teatro in qualità di attore?

Più vado avanti, più sperimento e più rafforzo quella che è stata sempre una centralità del mio Credo personale: la presenza dell’attore/attrice. Lo spettacolo lo fa l’attore/attrice. Mi offenderei se alla fine di una messa in scena mi dicessero “belle le luci”. Ovviamente non voglio dire che non siano importanti anche queste, ma il Teatro credo che debba centrarsi e concentrarsi sull’attore/attrice. Ho attraversato diverse “fasi” della mia vita, in alcune delle quali ho preferito l’aspetto più visivo e immaginifico piuttosto che quello attoriale. Il sentimento che mi ha sempre mosso però è la ricerca costante per trasmettere un “gusto” dell’allestimento allo spettatore, andando contro quella che è la tendenza di alcuni registi, soprattutto di nuova generazione, che mettono in scena prevalentemente degli “esercizi ginnici” piuttosto che degli spettacoli, non curandosi di tutti gli altri aspetti. I linguaggi che convergono nella messa in scena sono tanti e tutti devono essere rispettati. Il fatto di aver iniziato come attore è certamente un vantaggio perché posso conoscere i problemi e le difficoltà di chi sale sul palco. La musica invece la uso solo in funzione della drammaturgia, per risolvere un momento della storia. Deve essere proprio necessaria, altrimenti preferisco non usarla.

Quali sono i suoi progetti futuri in occasione di queste riaperture?

Per ripartire ho scelto un testo “piccolo” produttivamente ma di grande significato. Si tratta de “L’Oreste” di Francesco Niccolini, un monologo sulla malattia mentale, tratto dall’Orestea di Eschilo, con protagonista Claudio Casadio. In questo lavoro utilizzerò alcune animazioni e dei disegni: ci sarà una vera drammaturgia visiva. Dieci anni fa forse non avrei accettato di dirigere uno spettacolo così composto ma oggi invece non mi sono tirato indietro, perché se il presupposto è serio occorre essere recettivi e cogliere tutte le opportunità. È un mettersi in gioco e sperimentarsi continuamente.

Ci saranno riprese di alcuni lavori interrotti l’anno scorso?

“La classe” di Vincenzo Manna con Andrea Paolotti, Claudio Casadio, Brenno Placido, Edoardo Frullini, Giulia Paoletti, Andrea Monno e Cecilia d’Amico, al suo terzo anno di repliche.

Si tratta di un esempio, questo de “La classe”, all’interno delle proposte teatrali nazionali perché contravviene a quelle “regole produttive” alle quali accennava. Non è così semplice infatti proporre un testo di nuova drammaturgia, con un discreto numero di attori, avendo la possibilità di proporlo per così tanto tempo e in Teatri tanto importanti. Come giudica questo “fortunato privilegio”?

Lo attribuisco alla qualità dello spettacolo e allo spessore del messaggio racchiuso in esso. Dal 2017, anno della prima rappresentazione, questo spettacolo ha riscosso un grande interesse da parte del pubblico e degli addetti ai lavori. Sono molto soddisfatto, perché vuol dire che ci sono possibilità per un progetto di qualità di essere valorizzato superando le diffidenze che siamo portati ad avere.

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