L’AQUILA – Una lunga battaglia nei tribunali iniziata nel 2020, vinta da una insegnante che aveva contestato il suo pensionamento a 65 anni, rivendicando il diritto di andarci due anni dopo come gli uomini, in base alla Legge Fornero, avendo interesse ad accrescere l’anzianità contributiva. Riuscendo poi ad ottenere con una sentenza del Consiglio di Stato, un congruo risarcimento pari a due anni di stipendio mancato, senza indebite decurtazioni fiscali e al lordo dell’Irpef, al contrario di quello che aveva stabilito il Ministero dell’Istruzione.
La lunga vicenda giudiziaria, destinata a fare giurisprudenza ha avuto come protagonista una insegnante marsicana di sostegno, del primo ciclo d’istruzione, che aveva ricevuto comunicazione dall’amministrazione scolastica di essere collocata in pensione d’ufficio dal 1 settembre 2014, in ragione del compimento dei 65 anni di età l’11 luglio precedente.
Decisione contestata, ritenendola discriminatoria per età e sesso, in violazione dei principi costituzionali e del diritto europeo. Ad assisterla per tutto il lungo iter processuale l’avvocato del foro di Avezzano, Salvatore Braghini.
“Questo caso – commenta il legale – rappresenta un esempio paradigmatico di come la tutela dei diritti fondamentali richieda spesso un percorso processuale complesso e articolato, che attraversa diverse giurisdizioni per affermare principi di giustizia sostanziale. La vicenda della professoressa dimostra come la giustizia, pur attraverso percorsi talvolta lunghi e complessi, sia in grado di affermare principi di equità e di tutela della dignità umana. Un iter che ha toccato questioni cruciali del diritto del lavoro pubblico, dalla discriminazione di genere nel collocamento a riposo fino al regime fiscale delle somme risarcitorie”.
La battaglia legale ha preso avvio nel febbraio 2020 con un ricorso davanti al Tribunale ordinario di Avezzano. La richiesta è “di accertare il diritto al risarcimento del danno causato dall’amministrazione per aver collocato illegittimamente in pensione la docente con decorrenza 1° settembre 2014 anziché dal 1° settembre 2016, in violazione del principio di non discriminazione”.
Come evidenziato nella domanda giudiziale, “il collocamento anticipato a riposo configurava una palese discriminazione per età e sesso, con conseguenze dannose che si estendevano ben oltre la mera perdita economica, investendo la sfera della dignità personale e dell’identità sociale costituzionalmente garantita dalla Costituzione.”
Con sentenza del 26 novembre 2021 , il Tribunale di Avezzano, giudice del lavoro Antonio Stanislao Fiduccia, ha accoglie il ricorso, riconoscendo la fondatezza delle argomentazioni dell’avvocato Braghini e ha condannato il Ministero dell’Istruzione al risarcimento del danno nella misura di 14 mensilità e 4 giorni dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.
Tuttavia, spiega Braghini, “la pronuncia di primo grado presenta un aspetto che non soddisfa pienamente la ricorrente: il giudice dispone la detrazione dei ratei della pensione percepiti nel periodo dall’ 1 settembre 2014 al 4 novembre 2016, applicando il principio della compensatio lucri cum damno. Una decisione riduttiva rispetto alla reale portata del danno subito dalla sua assistita”.
A seguire dunque il ricorso alla Corte d’Appello dell’Aquila. La strategia difensiva si concentra sulla natura del danno risarcibile, sostenendo che “non si tratta di mera perdita economica ma di lesione di diritti fondamentali della persona”.
Nell’ottobre 2022 i giudici di secondo grado hanno accolto integralmente l’appello, chiarendo con una motivazione di particolare pregnanza giuridica che “la pensione percepita non è geneticamente correlata al medesimo fatto giuridico posto a base dell’obbligazione risarcitoria, atteso che, mentre la prima trova la sua ragion d’essere nella sussistenza dei requisiti anagrafici e contributivi previsti dalla legge, l’obbligazione risarcitoria rinviene il suo fatto genetico nella violazione del principio di non discriminazione”.
La Corte d’ Appello va oltre, specificando che il danno subito dalla docente “non può dirsi limitato alla mera perdita del trattamento retributivo che avrebbe altrimenti percepito se fosse rimasta in servizio, ma si estende alla anticipata perdita della propria identità sociale (strettamente connessa anche alla sua posizione lavorativa), che è costituzionalmente garantita e non può ritenersi suscettibile di compensazione”.
Non è però finita qui: ottenuto il riconoscimento del diritto al risarcimento, si è aperta una nuova fase della controversia.
Il Ministero dell’Istruzione, nell’eseguire il giudicato, aveva infatti liquidato le somme dovute applicando la tassazione Irpef, ritenendo che il risarcimento costituisca reddito sostitutivo ai sensi della norme sul fisco.
La docente, sempre assistita da Braghini, ha fatto dunque ricorso al Tar Abruzzo, sostenendo che “le somme dovevano essere corrisposte al lordo dell’Irpef, trattandosi di risarcimento per danno emergente e non per lucro cessante”.
Tuttavia, il Tar dell’Aquila con sentenza del 2024 ha respinto la richiesta, ritenendo che il risarcimento integri la figura del lucro cessante e sia quindi correttamente soggetto a tassazione.
La contromossa è stato dunque l’appello al Consiglio di Stato e la strategia difensiva si è concentrata sulla “corretta interpretazione del giudicato civile e sulla natura giuridica del danno effettivamente riconosciuto dai giudici di merito”.
I giudici di Palazzo Spada hanno così ribaltato l’impostazione del Tar, chiarendo che “sulla base del giudicato contenuto nelle sentenze civili, che non si presta ad interpretazioni di sorta”, il risarcimento ha natura di danno emergente e non di lucro cessante.
Il Consiglio di Stato ha poi evidenziato come il giudice ordinario “non si sia limitato a disporre il risarcimento delle conseguenze dannose concernenti la mera perdita del trattamento retributivo che sarebbe spettato alla lavoratrice se fosse rimasta in servizio, ma ha al contrario esplicitato in modo chiaro e inequivocabile che andava risarcita la perdita collegata alla identità sociale (strettamente connessa anche alla sua posizione lavorativa), che è costituzionalmente garantita e non può ritenersi suscettibile di compensazione”.
Nella sentenza del Consiglio di Stato si conferma “l’orientamento consolidato secondo cui i proventi conseguiti in sostituzione di redditi e le indennità conseguite a titolo di risarcimento dei danni consistenti nella perdita di redditi costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti; le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio sono soggette a imposizione soltanto se, e nei limiti in cui, risultino destinate a reintegrare un danno concretatosi della mancata percezione di redditi, mentre non costituisce reddito imponibile ogni risarcimento inteso a riparare un pregiudizio di natura diversa”.
Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, “con riferimento alle indennità risarcitorie si deve ritenere che esse siano assoggettate a tassazione solo se dirette a sostituire un reddito non conseguito e quindi a risarcire il cosiddetto lucro cessante, mentre non lo siano se sono volte a risarcire altre forme di danno di carattere emergente. Il caso evidenzia l’importanza cruciale della corretta qualificazione giuridica del danno ai fini del regime fiscale applicabile. Quando il giudice riconosce espressamente che il risarcimento è volto a riparare la lesione dell’identità sociale e della dignità professionale, configurando un danno emergente collegato alla tutela di beni costituzionalmente garantiti, tale pronuncia non può essere disattesa in sede di esecuzione”.
Come sottolineato dal Consiglio di Stato, prosegue l’avvocato, “tale essendo la natura giuridica della posta attiva per la quale è stato disposto il risarcimento del danno, ovverossia quella di un danno emergente collegato alla lesione di un autonomo bene della vita della lavoratrice, sub specie di tutela della dignità personale, della immagine professionale e della identità sociale, e non già quella di una liquidazione tesa a riparare ad un lucro cessante da perdita della retribuzione, ne consegue l’inapplicabilità del regime fiscale previsto per i redditi sostitutivi”.
Commenta infine l’avvocato Braghini, “la sentenza del Consiglio di Stato rappresenta un precedente di particolare rilevanza per tutte le controversie analoghe. Il principio affermato dai giudici di Palazzo Spada chiarisce definitivamente che quando il risarcimento è volto a riparare la lesione di diritti fondamentali della persona, come l’identità sociale e la dignità professionale, non può essere assoggettato al regime fiscale previsto per i redditi sostitutivi. Questo orientamento si inserisce nel più ampio quadro della tutela contro le discriminazioni nel rapporto di lavoro, particolarmente rilevante nel settore pubblico dove le decisioni amministrative possono incidere profondamente sui diritti dei lavoratori”.
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