CHIETI – “Gli arrosticini sono spiedini di carne di pecora tipici della cucina abruzzese legati alla tradizione pastorale dell’Abruzzo, e al conseguente consumo di carne ovina”.
L’ineccepibile e tetragona definizione di Wikipedia della prelibatezza che è diventata uno scettro identitario e un segno di abruzzesità verace, si scontra con la più prosaica realtà della globalizzazione del mercato.
Di abruzzese negli arrosticini c’è infatti ben poco: la carne ovina viene importata in larga parte dalla Francia, dalla Romania, dalla Germania e dalla Spagna.
Mettiamoci pure che i bastoncini di legno per confezionarli, il sale per condirli, financo la carbonella e le canalette per la cottura sono anch’essi di importazione.
Di abruzzese rimangono dunque solo il brand, la maestria degli addetti alla brace, la retorica dei degustatori di professione, che rimembrano gli eroici tempi della transumanza per le Puglie, e l’appetito dei commensali.
Tutto ciò rappresenta un’occasione sprecata per le aree interne abruzzesi, che pure vantano pascoli con una delle maggiori biodiversità vegetali dell’Occidente.
Dove ai tempi d’oro dei Medici le pecore al pascolo erano 7 milioni, ora invece ne rimangono meno di 300 mila.
Con un mercato, quello della cane ovina e non solo, che consentirebbe di moltiplicarne il numero e creare posti di lavoro in montagna ben superiori rispetto a quelli delle fabbriche nelle vallate, anch’esse strangolate dalla spietata competizione neoliberista.
Per non parlare del fatto che la carne ovina abruzzese è sana e genuina, anche se per il sapore più intenso e la consistenza più tenace non incontra sempre i gusti anch’essi globalizzati dei consumatori.
Ad occuparsi di questa vicenda, che ha una portata non solo gastronomica, è David Falcinelli, responsabile zootecnico di Coldiretti che ha lavorato ad un sistema di tracciabilità e al relativo accordo per la commercializzazione di carni ovine tra Aprozoo (Associazione produttori zootecnici abruzzese) ed un’industria locale, che, però, spiega a questa testata, deve presupporre la diretta collaborazione tra allevatori e soprattutto la sensibilizzazione dei consumatori finali.
“E’ vero – esordisce Falcinelli – oramai il grosso della materia prima, la carne, arriva da oltre frontiera. Ma è il destino di tanti altri prodotti solo apparentemente tipici: anche la mortadella di Bologna e la breasola della Valtellina si fanno con carne estera. E gli esempi non sono solo questi. Del resto il marchio Igp, Indicazione geografica protetta, che viene attribuito dall’Unione Europea a quei prodotti alimentari le cui qualità e reputazione dipendono dall’origine geografica, consentono comunque nei prodotti trasformati, e se lo prevede il relativo disciplinare, di utilizzare nel processo di trasformazione materie prime non locali”.
Prima ragione per la quale le aziende di trasformazione preferiscono importare carne d’Oltralpe, è ovviamente il prezzo all’ingrosso più conveniente.
Ma c’è pure un’altra ragione: la carne di importazione piace di più, anche se, dal punto di vista della ”salute”, non è paragonabile a quella abruzzese.
“Le nostre pecore – spiega l’esperto – fanno la transumanza verticale, percorrono chilometri ogni giorno su pascoli di eccellente qualità, e sono dunque più magre. Gli arrosticini prodotti con la loro carne sono più piccoli, e con meno grassi, anche se più tenaci. Questo dal punto di vista salutistico è un vantaggio, ma il problema è che i consumatori gradiscono di più gli arrosticini più grassi e morbidi e con pezzature più grosse, cioè quelli con carne straniera”.
Anche perché per il consumatore finale non è sempre facile scegliere di acquistare un autentico arrosticino abruzzese, considerando che è impossibile farlo in un ristorante dove non c’è nessun obbligo di dichiarare la provenienza della carne servita cotta.
Per quella cruda, invece, pochi ancora sanno che dall’aprile 2015 vige l’obbligo per i rivenditori di riportare obbligatoriamente nella confezione dove la pecora è nata, è stata allevata e macellata o lavorata.
“Abbiamo fatto, come Coldiretti, vari interventi sulla tracciabilità nelle scuole superiori – rivela Falcinelli – e purtroppo abbiamo constatato che nessuno o quasi era al corrente di questa certificazione, tutti cadevano dalle nuvole quando spiegavamo che gli arrosticini sono in buona parte fatti con carne di importazione. Serve dunque maggiore sensibilizzazione dei consumatori, per favorire una loro libera e consapevole scelta”.
Questo però non basta: occorrono decise e concrete azioni per favorire la crescita e la qualità del prodotto locale.
“Stiamo lavorando ad una quadratura del cerchio – prosegue Falcinelli – è un dato di fatto, difficilmente eludibile, che il consumatore vuole arrosticini con le caratteristiche che ho ricordato, per questo motivo i nostri allevatori dovrebbero condividere tutti insieme, adottando un disciplinare, azioni di ottimizzazioni nel sistema di allevamento e alimentazione, prevedendo ad esempio di integrare l’alimentazione del pascolo allo stato brado con mais e orzo, al fine di rendere la carne più morbida e leggermente più grassa senza, si badi bene, pregiudicare l’unicità e la salubrità del nostro prodotto”.
Si pone poi il problema delle certificazioni.
L’ideale sarebbe un marchio Dop, Denominazione d’origine protetta, sull’arrosticino abruzzese, il che imporrebbe l’utilizzo solo di carne prodotta in regione.
Ma non è operazione semplice, anche perché le aziende di trasformazione abruzzesi per garantirsi i loro margini di profitto preferiscono mantenere lo status quo che consente di utilizzare carne importata a prezzi più bassi.
Per quanto riguarda il consumo, spiega poi Falcinelli, “una legge quadro sulla prosecuzione della tracciabilità anche nei cibi cotti, per difendere questo diritto del consumatore, andrebbe approvata dal Governo per tutta l’Italia e sottoposta alla validazione dell’Unione europea, visto che a livello regionale si può fare ben poco. Abbiamo vissuto sulla nostra pelle i tempi e le lotte sindacali che si sono rese necessarie per ottenere la tracciabilità sugli alimenti, e tra l’altro ne mancano all’appello alcuni come pasta e prodotti della panificazione, perciò non possiamo aspettarci percorsi brevi nè facili”.
I ristoratori, però, nel frattempo possono dare concretamente una mano alla filiera tutta abruzzese aderendo volontariamente al marchio “Campagna Amica nel piatto”, che nel suo disciplinare prevede appunto che nel menù del giorno ci sia almeno una portata il cui ingrediente primario, in questo caso la carne di pecora, è prodotta da aziende locali anch’esse certificate.
Il costo della certificazione è di appena 50 euro all’anno, dunque può rappresentare un primo passo per rilanciare il consumo dell’autentico arrosticino abruzzese.
“Solo aumentando la fetta di mercato rendendo riconoscibile il prodotto e consolidando una rete di distribuzione tutta abruzzese fino al consumatore finale, conclude Falcinelli – si può creare una filiera virtuosa che può creare tanti posti di lavoro. Se solo raddoppiassero i capi allevati, da 300 a 600 mila, e di pascoli inutilizzati ce ne sono in grande abbondanza, cambierebbe il destino di spopolamento delle nostre montagne”.
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