L’AQUILA CAPITALE DELLA CULTURA: DE AMICIS, “MA ALLA CITTA’ IMPOSTO MODELLO SVENDITA DI OGNI VALORE”

23 Marzo 2024 11:50

L'Aquila - Cultura

Da Alfonso De Amicis – storico esponente della sinistra di classe aquilana, tra i promotori del Comitato Popolare per la Difesa del Sistema Sanitario Nazionale, nato recentemente all’Aquila – riceviamo e pubblichiamo una riflessione sull’Aquila Capitale della Cultura.

L’AQUILA – Sarà di un milione di euro il finanziamento a supporto delle iniziative dovute per L’Aquila Capitale della Cultura. Manco fosse un “gratta e vinci”.

D’altronde, siamo nell’era della competitività, dove al posto della pianificazione (che brutta parola!) bisogna essere attrattivi. Ritornano i richiami di Zygmunt Bauman circa la contrapposizione tra società solida e quella contemporanea liquido/gassosa, pronta a conformarsi alle opportune esigenze.

Ma cosa significa cultura nel nostro caso? Cosa rappresenta L’Aquila capitale della Cultura?  Significa una coerente e unitaria concezione della vita dell’uomo, di un modo di vivere la città e di quell’annuncio delle aree interne Appenniniche? O, al contrario, quella tendenza storica dell’industria culturale che di fatto si contrappone a tutto ciò che rompe con il pensiero dominante e benpensante?





La città poteva interrogarsi sul proprio passato e ragionare sul vero senso di una ricostruzione post-terremoto, che avrebbe dovuto e potuto seguire altri percorsi. E così, mentre tutti festeggiano come a Sagunto, l’aspetto storico, artistico e architettonico della città (storica) è stato sacrificato, con valori messi al banco di una movida-consumismo fine a se stessa.

Guardate l’asse centrale, che poi storicamente non è mai esistito – non esiste alcuna menzione storica al riguardo: parliamo di Corso Inferiore e Corso Superiore. Un amico mi ha fatto notare come tra l’uscita di casa e la frequentazione del Corso non c’è “stacco”: il guadagno dell’uscio e il buttarsi in una città a consumo è un unico gesto, voluto e pianificato.

Altro che colore della pietra, o se la stessa è aquilana oppure “straniera”.

Neanche un anno fa ci lasciava una delle menti più lucide e prolifiche di questa città, Raffaele Colapietra: la solitudine – salvo quella spesso pelosa e tardivamente celebrativa dalla sua morte – di un intellettuale come lui forse, è l’emblema dello stato culturale in cui siamo immersi. E sono lontani i tempi in cui, pur tra mille difficoltà, il rapporto tra società civile e istituzioni dava i suoi frutti.

L’Università, ad esempio, metteva a disposizione le sue strutture ed i suoi saperi al popolo, penso all’Aula 1 come “teatro” di dibattiti e discussioni che segnavano i cambiamenti di fase.





E poi il Teatro Stabile, la Sinfonica, che interagivano con pezzi di aggregati sociali fino a quel punto tenuti ai margini di qualsiasi movimento culturale o  di pedagogia del sapere. Allora ritorniamo alla domanda iniziale ed aggiungiamo: che cosa intendiamo per cultura? A quale movimento rifarsi? A quale percorso storico? A quale rapporto tra movimento reale e istituzioni?

Un movimento di élite o “nazional-popolare”, per dirla con Gramsci. E qui dobbiamo forse interrogare il ministro della Cultura, Sangiuliano, che pare di conoscere Gramsci senza tuttavia averlo approfondito, mi pare di capire, sul piano popolare.

Perché il popolo, nel contesto della società liberista, altro non può essere che un prodotto da vendere e consumare, non una persona che ha bisogno della cultura alta, vera, per emanciparsi e progredire insieme agli altri.

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